lunedì 31 dicembre 2012

Spleen e il quotidiano

Entrare e uscire da uno stesso luogo
e non trovarsi mai all'esterno.
Spleen aveva lo sguardo pieno
del fascino gentile
di ogni ora del giorno,
pestava col bastone i lampi
di luce che filtravano le finestre.
Prigioni di sbarre di gocce di pioggia
gli inumidivano il collo
d'animale, croste di molluschi secchi,
prigione di un barbaglio di vita
che voleva uscire.

Uscire e entrare in uno stesso luogo
e non trovarsi mai all'interno.
La sposa e lo sposo di Spleen
non hanno due anime divise.
Sembra semplice sfondare
quel semi-aperto varco:
Amico, non vuoi dissipare la coltre
di fumo?
Immobile resti. Io resto
ad un passo dal tuo filo di lama:
ho un'anima di granelli di sabbia
che s'accartoccia ai colpi di vento.

Derevaun seraun
Spleen si accaniva
contro esili figure morbide.
Ora aspetta alla soglia aspettando
innumeri sguardi da affondare
nelle cavità
ai lati delle narici
e detta all'orecchio di poeti l'eco
di quel che gli pare essere il mondo.

(Simone Risoli, 31 dicembre 2012)


sabato 22 dicembre 2012

Spleen e il reale


E io adesso non so a che pensare
se non che questo silenzio ricopre
di un suono confuso i minuti eterni
trascorsi a vedere il riflesso
di una terra lontana svanire e apparire
in quattro mura assenti,
la nostra città consueta coperta di ghiaccio
che sembrava una lastra di Siberia
traslata a questa latitudine ordinaria,
di ordinari freddi inverni
e ordinarie estati aride.
Ride dove prima pensava,
non sente l'amaro e l'acido,
non crede alle nuvole alte
di neve e lana leggera
l'attesa di questi giorni.

Morire non rientra nell'ordine
della natura e penso,
con l'istinto di vivere
piantato fra le pupille e il mondo,
che è meglio lasciare il pensiero posarsi,
quando stanco riposa,
che costringerlo
alla pesantezza di sempre.

(Simone Risoli, 21 dicembre 2012)

lunedì 3 dicembre 2012

Il 3 dicembre del '39

Appassionato lettore, 
mi rivolgo a te soprattutto per chiederti, delle diverse interpretazioni (da quella individualista a quella più critica) che a questo testo si possono attribuire, di scegliere quella che meglio permetta di confrontare il tempo passato al presente e cogliere, nel divenire, il senso di cambiamento.
Non intendo frapporre una mia visione pessimista o polemica, né suggerire un senso di catastrofismo o sterile qualunquismo, che pure è il fondamento ultimo, la morale parodiata dall'autore. 
Colgo, invece, unicamente, la coincidenza di data per uno stimolo alla riflessione.


(da Folk beat n.1 , F. Guccini)

sabato 24 novembre 2012

E se fosse una questione «culturale»?



Ho letto negli ultimi giorni alcune considerazioni sulle primarie del centro-sinistra, tra le maggiori esperienze democratiche interne ai partiti di questo Paese. In quelle – talvolta – condivisibili opinioni non ho potuto non notare, però, alcuni errori d'impostazione che precedono la questione «materiale» dei risultati e dei vincitori. Per tali ragioni, vorrei che le mie riflessioni fossero lette come la constatazione di un errore di fatto che riguarda il ragionamento generale prima che l'interesse di parte.
È davvero tanto certo che la soluzione di «sinistra» italiana debba essere una cura a base di «americanismo e fordismo» alla nuova maniera?
La questione è male impostata se non muove da questo presupposto. Che la sinistra di riferimento debba essere «quella di Obama e non quella di Rosy Bindi» suona come provocazione e ha il tono del proclama elettorale.
E tuttavia non si può negare – si obietterà – un fondo di verità e buon senso. Il modello rooseveltiano, l'homo novus americano, la sinistra moderata che coniuga ceto medio e ceto disagiato, etica del lavoro e del merito sono i punti di forza del riferimento obamiano.
Fin qui, nulla da aggiungere. Ma, invece, si dimentica di aggiungere due affermazioni assiomatiche: 1) il modello americano si regge su fondamenta culturali distanti enormemente dall'Italia; 2) la sinistra europea non è la sinistra americana. Detto quanto detto, la conclusione non è "giansenista", e cioè la rassegnazione a una cultura politica "meritata" e immutabile; ma non bisogna nemmeno agire senza cognizione di causa, inseguendo ciecamente un mito senza ricercarne le condizioni.
In altre parole, occorre domandarsi: e se i rottamatori del centro-sinistra aspirassero a un modello senza avere compreso le basi che tale modello hanno permesso? Se il tutto (il paventato successo americano, il fallimento italiano, le differenze fra i due sistemi politici) fosse una questione di «cultura» e sulla cultura dovessero incidere i rinnovatori? (Chiaramente, incidere sulla cultura non è una missione di cui possano incaricarsi singoli personaggi).
È chiaro che, affrontando il problema da questa – ahimè! – corretta prospettiva, resta poco di sostanzioso oltre l'enfasi dei programmi di alcuni candidati. Perché, infatti, la questione non è quanto sia giusto cambiare tutto perché non cambi niente, ma comprendere l'origine patologica della degenerazione politica italiana. E, mi spiace ripeterlo, l'origine è culturale.
Da questo discende una e una sola conseguenza: se l'origine è culturale, bisogna modificare la cultura. L'impresa americana di Obama è sicuramente storica; dopo il New Deal, l'epoca obamiana rappresenta uno dei maggiori  progressi politici e sociali degli USA; detto questo, l'esperienza storico-culturale degli Stati Uniti è altro da quella italiana. Invocare il successo americano non significa di per sé assolvere il popolo italiano, anche se l'esperienza americana è una linea guida.
Ne è lucido esempio la scorsa esperienza elettorale. Il Presidente e i Rappresentanti degli Stati Uniti sono stati eletti con il meccanismo previsto dalla Costituzione del 1787: una “legge elettorale” in vigore da oltre due secoli, con qualche modifica successiva, ha regolato l'espressione del  voto di milioni di individui, laddove, in Italia, la successione frenetica di leggi elettorali ha prodotto un sistema particolarista e, a tratti, indecifrabile (l'eufemismo è d'obbligo). Che cosa ha permesso allo spirito civile americano si adattarsi ai tempi senza mutare forma? La perfetta corrispondenza fra cultura civile, etica e politica.
Con questo non intendo elogiare senza misura l'esperienza – imperfetta – d'oltreoceano, ma denunciare un errore logico di chi vuole importare dall'altra sponda dell'Atlantico i risultati sensazionali, senza riconoscerne le cause e i limiti.Per chiarire con una visione d'insieme, sarebbe opportuno porsi due domande (dalle risposte tendenzialmente divergenti): per quali ragioni il sistema politico e partitico statunitense riesce ad autoregolarsi piuttosto efficacemente? Perché il sistema di derivazione statunitense di autoregolamentazione dei mercati non è un modello efficiente ed equo? (Occorre distinguere i piani, occorre agire consapevolmente).
E con ciò, si giunge al secondo punto. Non un solo candidato del centro-sinistra ha citato in questi giorni Obama; non tutti i candidati del centro-sinistra sono “uguali”. Il discriminante è la consapevolezza della citazione.
Chi condivide lo spirito obamiano delle «conversazioni al caminetto» o la spinta americana (e non obamiana) del neo-liberismo (confondendo, inoltre, liberismo e meritocrazia, liberismo e iniziativa personale), fraintende il ruolo della sinistra europea. Chi ha ricordato Obama, a sinistra, elogiandone, invece, l'attenzione alla economia sociale e ambientale, per la quale il Presidente è ancora accusato dai detrattori di essere un socialist (termine spregiativo per molti suoi concittadini), ne ha compreso la reale carica propulsiva. Un uomo di sinistra (italiano) non può disconoscere che il suo obiettivo politico è cercare, fra la via del livellamento e la via delle disuguaglianze determinate dai rapporti di forza o economici, quella della giustizia sociale.
Se l'opera meritoria di Obama presenta caratteri progressisti, questo dipende proprio dall'ineditoeuropeismodella sua politica. Assistenza sanitaria (quasi) pubblica, redistribuzione dei redditi, istruzione garantita a tutti i livelli, integrazione delle minoranze, sostegno ai lavoratori appartengono al centro-sinistra europeo, socialdemocratico e non liberal-progressista in senso classico. 

(Simone Risoli)

sabato 17 novembre 2012

Dedica


A Laerte, 
padre degli uomini
che cercano fra le pagine
mucchi di terra …

(Simone Risoli, 2012)


giovedì 8 novembre 2012

Four more years. Il discorso di Barack Obama

«Stanotte dopo 200 anni dall'indipendenza delle Colonie, il perfezionamento della nostra Unione va avanti. Grazie a voi, che avete riaffermato lo spirito di questo Paese. Ognuno segue il proprio sogno, ma noi siamo un'unica famiglia americana che resta unita. La strada è stata lunga e difficile. Ma ci siamo rialzati, abbiamo combattuto, e sappiamo che per gli Stati Uniti, il meglio deve ancora venire. Voglio ringraziare tutti gli americani che hanno partecipato. Se avete votato all'alba, o aspettato in fila per molto tempo (e dobbiamo risolverlo, questo problema). Se avete girato casa per casa o alzato la cornetta per convincere gli elettori.
Ho parlato con Romney e mi sono congratulato per una campagna combattuta duramente, senza sconti, ma solo perché amiamo entrambi questo paese. Tutta la sua famiglia ha scelto di impegnarsi per il paese. Nelle prossime settimane voglio sedermi a un tavolo con lui per discutere come migliorarlo. Voglio ringraziare il gioioso guerriero d'America, Joe Biden.
Non sarei l'uomo che sono oggi senza la donna che ha accettato di sposarmi 20 anni fa. Michelle, ti amo ora più di prima. Ho visto l'America innamorarsi di te. Sacha e Malia, state crescendo e diventando forti, belle e intelligenti come vostra madre. Ma devo dirvelo: un cane, per ora, è abbastanza...
Alla migliore campagna e ai migliori volontari nella storia della politica americana! Alcuni di voi erano dei debuttanti, altri erano qui dall'inizio, ma tutti di voi siete parte della mia famiglia. Porterete con voi la memoria di un momento storico. Grazie per aver creduto in me durante tutto quello che abbiamo passato e tutto il lavoro incredibile che avete svolto.
Le campagne politiche a volte possono sembrare piccole o sciocche. I cinici dicono che la politica è solo un confronto di ego o la vittoria di interessi particolari. Ma se aveste visto il lavoro dei volontari, avreste scoperto la determinazione degli organizzatori, del ragazzo che studia al college e vuole che anche gli altri abbiano la stessa possibilità, il ragazzo che va porta a porta perché il fratello è stato assunto in fabbrica dove è stato aggiunto un altro turno. Per questo facciamo questo. Per questo le elezioni sono importanti.
La democrazia in un Paese di 300 milioni di abitanti può essere rumorosa e complicata, possiamo avere opinioni diverse, possiamo aprire controversie. Questo non cambierà oggi, né deve. Le nostre discussioni sono parte della democrazia.
Molti Paesi ci guardano come un esempio. Nonostante le nostre differenze, la maggior parte di noi condivide principi comuni. Vuole un futuro per i nostri cittadini fatto di scuole migliori, nuovi posti di lavoro, senza un debito schiacciante, non minacciato da un pianeta che si riscalda. Un Paese sicuro, rispettato e ammirato nel mondo e difeso dal miglior esercito che esista. Un Paese che si muova con fiducia oltre la guerra verso un futuro di pace. Un'America generosa e tollerante, aperta ai sogni di una figlia di immigrati che studia nelle nostre scuole e giura sulla nostra bandiera. Un bambino povero che vuole diventare medico, pompiere, presidente: questa è l'America che va avanti.
Il progresso non è sempre una linea dritta, un processo morbido. Bisogna costruire il consenso e fare compromessi per portare avanti il Paese. L'economia si sta riprendendo, una guerra decennale si sta chiudendo. Anche se non mi avete votato, vi ho ascoltato, ho imparato da voi, mi avete reso un presidente migliore. Con i vostri consigli tornerò alla Casa Bianca.
Stasera avete votato perché ci mettessimo in moto, perché facessimo il nostro lavoro. Ridurre il deficit, riformare il fisco, introdurre nuove leggi sull'immigrazione, ridurre la nostra dipendenza dal petrolio straniero. Ma questo non vuol dire che il vostro lavoro è finito qui. I cittadini devono partecipare continuamente alla vita pubblica: dobbiamo chiederci cosa noi possiamo fare per gli altri.
Abbiamo denaro e l'esercito più potente, ma non siamo ricchi e forti per questo. Abbiamo le migliori università e una tradizione culturale incredibile, ma le nostre menti e i nostri spiriti sono incredibili per un altro fattore. E' il legame che ci unisce. Un titolo che rende l'America unica al mondo. Questo Paese funziona solo se tutti lavoriamo insieme per il futuro fatto di amore, carità, senso del dovere, patriottismo.
Sono pieno di speranza oggi, perché ho visto il sacrificio degli Americani per il loro prossimo. Nei lavoratori che si spaccano la schiena per i colleghi, nell'impegno dei militari, nei Navy Seals che sanno di avere un compagno che li protegge. Nelle coste di New Jersey e New York dove ho trovato un popolo unito per ricostruire i danni della tempesta.
In Ohio un padre mi ha raccontato la storia di sua figlia di 8 anni. E' malata di leucemia e stavano spendendo tutti i soldi che avevano per curarla. Senza la riforma sanitaria che abbiamo passato, la sua assicurazione avrebbe smesso di pagare per le cure. Ogni genitore aveva lacrime agli occhi; tutti sapevamo che quella bimba poteva essere nostra figlia. Questo è ciò che siamo.
Sono orgoglioso di essere il presidente di questa America. Non sono mai stato più fiducioso di stasera. Non parlo di ottimismo cieco. Davanti a noi ci sono ostacoli enormi. Ma io credo che qualcosa di migliore ci aspetterà sempre, se abbiamo il coraggio di continuare a cercarla, di combattere per raggiungerla.
Credo che potremo mantenere la promessa dei Padri fondatori: che se sei disposto a lavorare duro, non importa che tu sia uomo o donna, bianco o nero, ricco o povero, vecchio o giovane, etero o omo, riuscirai a farcela in questo paese e a vedere realizzato il tuo sogno. Siamo più di un insieme di stati democratici e repubblicani, siamo e resteremo gli Stati Uniti d'America e, se Dio vorrà, dimostreremo di essere uniti e che possiamo lavorare insieme per costruire un futuro migliore. 
Grazie. Che Dio vi benedica e benedica questi Stati Uniti d'America».

(Barack Obama)

venerdì 2 novembre 2012

A Pier Paolo Pasolini



Me ne vado, ti lascio nella sera
che, benché triste, così dolce scende
per noi viventi, con la luce cerea 

che al quartiere in penombra si
rapprende.

***
Per il segno che c'è rimasto,
non ripeterci quanto ti spiace
non ci chiedere più come è andata,
tanto lo sai che è una storia sbagliata


Questo non è un epicedio, un memoriale, un omaggio in senso stretto; e non è nemmeno una biografia, una sintesi delle opere, una ricostruzione storica.
Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna nel 1922...
Un inizio del genere, da enciclopedia o da saggio che, beninteso, gli riservano lo spazio che s'è meritato, non rende il giusto a Pier Paolo Pasolini.
Discutere delle dicerie che circolavano sul suo conto, dei tentativi di sabotarne la carica morale e culturale rivoluzionaria, ricorrere – come, ahimè, sto rischiando – a una predica postuma, a una “retorica su Pasolini” è fuori luogo. Come è fuori luogo il senso di pietà e di commemorazione confinato in un giorno all'anno.
Singolarmente, secondo chi alimenta speranze superstiziose, comunemente, per chi osserva i fatti come tali e cerca di ricavarne un supporto per costruire i propri postulati, la morte di Pasolini avvenne il 2 novembre del 1975. Le circostanze misteriose, le giustificazioni tardive, la denuncia dello stesso Pasolini al clima di “fascismo culturale” che lo avrebbero ucciso sono elementi su cui si deve fare chiarezza. «Una storia mica male insabbiata, una storia sbagliata».
Il motivo per cui ambiziosamente colgo l'occasione per ricordare a me stesso Pasolini mi è chiarissimo.
Pasolini avrebbe potuto salvare l'umanità? Consentitemi questa espressione molto poetica ed estremamente labile. L'atteggiamento intellettuale di Pasolini, se fosse attecchito in Italia, avrebbe salvato l'individuo dal male dell'insipienza. Ma per salvarsi è davvero necessario voler essere salvati. Si obbietterà che un intellettuale non può cambiare lo stato dei fatti, né può, per di più, un intellettuale particolare, un intellettuale che i detrattori con falso eufemismo definivano “singolare”, “appariscente” e i più diretti oppositori consideravano “osceno”, “eversivo”. Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale.
Nella sua vasta produzione, abbozzando il suo ultimo romanzo incompiuto, Petrolio, Pasolini ha scritto la summa dell'essere umano attraverso lo scandalo, la trasformazione, la debolezza, l'infezione, l'ambivalenza; ha tentato di superare il Novecento letterario, aggiungendo alla ricerca del capolavoro lo spirito umanitario dell'interesse civile, scrivendo per volontà e per desiderio.
Il senso della storia era un tormento che individuava nel popolo il soggetto in grado di percepirne l'essenza, nel «grande concerto di scalpelli»: solo il popolo ne ha un sentimento. Il popolo d'altra parte, questa collettività fisica e ideale dai tratti del Marxismo e del Vangelo, è l'origine della contraddizione. Muta ammirazione, idealizzazione, abbandono all'estetica o spinta al cambiamento, lotta di classe, liberazione dal giogo oppressivo, dalle catene inghirlandate dall'arte e dalla morale comune? Con le parole del poeta: 
«Lo scandalo del contraddirmi, / dell'essere / con te e contro te; con te nel core, / in luce, contro te nelle buie viscere; // del mio paterno stato traditore / - nel pensiero, in un'ombra di azione - / mi so ad esso attaccato nel calore // degli istinti, dell'estetica passione; / attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione // la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza: è la forza originaria // dell'uomo, che nell'atto s'è perduta, / a darle l'ebbrezza della nostalgia, / una luce poetica: ed altro più // io non so dirne, che non sia / giusto ma non sincero, astratto / amore, non accorante simpatia...». (Le ceneri di Gramsci)
Un ingente contributo all'affrancamento culturale, percepito in forte connessione con la possibile emancipazione fisica e concreta degli individui, fu la risposta implicita di Pasolini a quanti con le maniere borghesi della doppia morale, con la moderatezza esteriore che celava l'intolleranza e esprimeva il conformismo come valore imperante dell'Italia del dopoguerra, si opponevano alla libertà di pensiero.
Così, in una celebre intervista di Enzo Biagi:

B. Che cosa ci trova di così anormale (l'argomento è "il successo" che Pasolini ha definito "altra faccia della persecuzione", N.d.A.)? 
P. Perché la televisione è un medium di massa, e come tale non può che mercificarci e alienarci. 
B. Ma oltre ai formaggini e al resto, come lei ha scritto una volta, adesso questo mezzo porta le sue parole: noi stiamo discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione. 
P. No, non è vero. 
B. Si, è vero, lei può dire tutto quel che vuole. 
P. No, non posso dire tutto quello che voglio. 
B. Lo dica!
P. No, non potrei perché sarei accusato di vilipendio, uno dei tanti vilipendi del codice fascista italiano. Quindi in realtà non posso dire tutto. E poi, a parte questo, oggettivamente, di fronte all'ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose. Quindi io mi autocensuro. Comunque, a parte questo, è proprio il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video, ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico. 

Non è stato forse Pasolini un (inaudito) profeta del nostro tempo?

(Simone Risoli)

sabato 27 ottobre 2012

Brevi riflessioni settimanali. Etica e quasi-filosofia

Come scriveva Bobbio, esistono due filosofie, una aperta e critica, l'altra certa e assoluta. 
Se si sostituisce a "filosofia" il termine "approccio alla realtà", credo che si possano reinterpretare diversi fenomeni con una superiore consapevolezza, in una prospettiva completa.
Uno degli ambiti che potrebbe essere reinterpretato in forza di questa diversa apertura - che non si sostituisce, ma si affianca criticamente e rimane, su indicazione di Bobbio, una via aperta - è l'etica.
E' appena il caso di premettere un possibile inquadramento della questione.
Secondo Nietzsche proclamare la morte di Dio, demolire l'architettura dei valori assoluti, non significa “crogiolarsi nel nulla”, ma “abbassarne il livello”, permettere la creazione di altri valori con la consapevolezza che di creazione umana si tratta e, pertanto, ammetterne il superamento. Molte teorie, diffuse sono in ambiente accademico, ripensano l'etica nel metodo e nei contenuti, discutendo i termini di una sua possibile logica o razionalità; quando si riflette sulla morale, nel metodo e nei contenuti variabili, resta tuttora innovativo  l'insegnamento di Kant e le sue rielaborazioni.
«Questa è una canzone - dichiarò Fabrizio De André, introducendo "La città Vecchia" - che risale al 1962, dove dimostro di avere sempre avuto, sia da giovane che da anziano, pochissime idee ma in compenso fisse. Nel senso che in questa canzone esprimo quello che ho sempre pensato: che ci sia ben poco merito nella virtù e ben poca colpa nell'errore. Anche perché non sono ancora riuscito a capire bene, malgrado i miei cinquantotto anni, cosa esattamente sia la virtù e cosa esattamente sia l'errore, perché basta spostarci di latitudine e vediamo come i valori diventano disvalori e viceversa. Non parliamo poi dello spostarci nel tempo: c'erano morali, nel Medioevo, nel Rinascimento, che oggi non sono più assolutamente riconosciute. Oggi noi ci lamentiamo: vedo che c'è un gran tormento sulla perdita dei valori. Bisogna aspettare di storicizzarli. Io penso che non è che i giovani d'oggi non abbiano valori; hanno sicuramente dei valori che noi non siamo ancora riusciti a capir bene, perché siamo troppo affezionati ai nostri».
Come è evidente, in due modi si può raggiungere una nuova consapevolezza etica: criticando i presupposti tradizionali, ovvero rifiutando una accettazione acritica, o capovolgendoli. L'una e l'altra sono spesso vie contigue e proseguono lungo il solco della tolleranza.

venerdì 19 ottobre 2012

Poesia d'autunno


Ottobre

Un tempo, era d'estate,
era a quel fuoco, a quegli ardori,
che si destava la mia fantasia.
Inclino adesso all'autunno
dal colore che inebria;
amo la stanca stagione
che ha già vendemmiato.
Niente più mi somiglia,
nulla più mi consola,
di quest'aria che odora
di mosto e di vino
di questo vecchio sole ottobrino
che splende nelle vigne saccheggiate.

(V. Cardarelli)


venerdì 12 ottobre 2012

I cieli celesti d'Italia. Il conflitto tra luce e ragione



Esiste un'inversione della logica in alcune affermazioni che dovrebbe preoccupare più del problema che agitano. In primo luogo, perché il fantomatico problema non esiste e dunque non può essere validamente espresso; in secondo luogo, perché, laddove la logica diventa una contorsione del ragionamento, soccorrono inganni di vario genere: dal tentativo di suscitare terrore a quello di indebolire il livello generale di capacità di pensiero.
Che risparmiare sull'illuminazione pubblica sia la causa (o la concausa) di un aumento della criminalità è argomentazione facilmente debole. Se ci si ragiona, nessuno affermerebbe coscientemente che la causa del traffico di droga, delitti, sfruttamento della prostituzione, furti sia la superficie poco rifulgente della luna.
Le politiche di spending review del Governo italiano hanno, infatti, riguardato anche tagli alla spesa sull'illuminazione pubblica notturna, e le reazioni sono state rapide. La questione è stata affrontata dall'esecutivo in linea con molte proposte della società civile e con riferimento alle statistiche europee, le quali indicano l'Italia come il paese, dopo la Spagna, maggiormente incline al consumo e agli sprechi anche nel settore dell'energia elettrica. Il nostro Paese dissipa energia pro-capite pari al doppio di quella impiegata in Germania e della media UE; nettamente superiori i consumi anche rispetto a Francia, Irlanda, Belgio e Regno Unito.
Benché le intenzioni del legislatore e dei governi spesso trascendano, soprattutto in questi ultimi anni, gli obiettivi dichiarati, è fuori discussione che una scelta del genere importi il doppio effetto di ridurre la spesa pubblica nei settori in cui essa costituisce inutili sprechi e, simultaneamente, di promuovere un ideale positivo o - come definito da parte dell'opinione pubblica - un "circolo virtuoso" di utilizzo intelligente delle risorse.
Diverse barricate concettuali si sono sollevate ugualmente sulla disposizione.
Certamente, con l'estremizzazione in entrambi i sensi si rischia la banalizzazione del problema. Non si tratta, perciò, di aderire per partito preso a una posizione ambientalista o di verso opposto.
Si è obiettato che durante le ore notturne si raggiunge il tasso massimo di incidenti stradali che pongono a rischio incolumità pubblica e personale; che alcuni reati sono di per sé "notturni" o si avvalgono della "complicità notturna": agire alla luce del sole è senz'altro un inizio di confessione. Non per questo, però, l'illuminazione è la causa di una riduzione della delinquenza: indubbiamente è un fattore che concorre all'individuazione del problema, ma non alla sua soluzione. La sicurezza stradale si preserva con altri mezzi (controlli dei pubblici ufficiali, limitazioni dell'uso di sostanze alcoliche, provvedimenti su limiti di velocità e accertamenti sulla loro osservanza), la criminalità occasionale o organizzata, che spesso si avvale del silenzio e dell'omertà generale, non trova certo un disincentivo nella sua "visibilità" se questa non si accompagna all'effettiva denuncia o alla fattiva prevenzione con mezzi funzionanti.
Se esiste una minima incidenza dell'illuminazione pubblica sulla riduzione della delinquenza, questa non è né risolutiva, né la causa prima.
Dall'altro lato, il timore atavico, che discende dal rischio dell'incolumità e sfocia nel bisogno di sicurezza, nasconde un problema più rilevante.
In alcune giornate invernali la sera è più luminosa del giorno. Molti potrebbero esserne accorti, esserne soddisfatti o vivere ormai in una sorta di assuefazione. Il consumo inutile di energia elettrica, però, incide direttamente sull'ambiente: l'ambiente è, letteralmente, la prospettiva, il luogo, la forma, lo scenario materiale entro cui la realtà naturale, animale, umana si svolgono.
La sicurezza - pur essendo inconcepibile che una sua compromissione derivi da una decisione del genere - non è la contropartita della libertà personale.
Ovviamente non deve intendersi per "libertà" il dissennato arbitrio. Libertà è un concetto più complesso e, a prima vista, paradossale o inafferrabile, perché si accompagna necessariamente alla responsabilità (personale, morale, civile, universale) che la rende indigesta ad alcuni.
Una politica che escluda l'ambiente sarebbe la vera compromissione delle libertà, perché esclude il fondamento stesso del loro esercizio, il requisito materiale, ovvero la persistenza del genere umano. D'altro canto, una falsa logica che escluda il pensiero sarebbe ugualmente la vera compromissione delle libertà, perché ne esclude il secondo fondamento, il requisito sostanziale, ovvero la decisione, la possibilità di scelta.
Placida notte, e verecondo raggio
della cadente luna...
                                    ...già non arride
spettacol molle ai disperati affetti

(Simone Risoli)

domenica 7 ottobre 2012

La «vera» libertà. Ricerche e analisi

Appendice postuma a  Tre lezioni sulla libertà 

Libertà positiva, libertà negativa. L'equivalente politico della libertà (tendenzialmente morale) positiva è una libertà negativa garantita (diritto) a contenuto volontaristico: la libertà di manifestazione del pensiero, ad esempio. Essa è sicuramente una libertà negativa, poiché si pone come negazione o circoscrizione di un limite ad agire, la quale dispone a proposito di una basilare libertà positiva: quella di orientare autonomamente una scelta, escludendo un'interferenza esterna. Tale interferenza si porrebbe come impedimento all'azione (assenza di libertà negativa) e, simultaneamente o per effetto, come etero-direzione (assenza di libertà positiva): per meglio dire, sarebbe una costrizione che incide direttamente sulla libertà di coscienza.
In questa ottica, viene in primo piano in ambito politico la libertà di tipo negativo sull'altra, perché è il perimetro entro il quale, solamente, si definisce il terreno; senza la forma esterna del "diritto soggettivo", il contenuto della libertà positiva sarebbe politicamente affetto dalla informità tipica dei fluidi.
D'altro canto, una più ampia trattazione non può ridurre reciprocamente concetti diversi; può al più rilevare possibili punti di contatto.
Vale ancora (per quanto storicamente espressione dell'ideologia liberale) quel che affermava Constant: la vera libertà, in ambito politico, è negativa. Se si vuole, però, approfondire il concetto alla luce delle tendenze costituzionalistiche nell'interpretazione del concetto di libertà, vengono in rilievo i contenuti specifici che il perimetro della libertà negativa sottrae all'autorità e consegna al singolo. In tal caso, è possibile un contenuto positivo oggetto di una libertà negativa, nel senso di "diritto soggettivo" che rende possibile ed effettiva l'autodeterminazione.
Avallando la tesi di Constant, urge tuttavia indicarne anche i limiti. Posto che, come afferma il pensatore politico francese, la libertà negativa sia la «libertà dei moderni», non per questo la libertà degli antichi si identifica con quella positiva. Libertà positiva e negativa coesistono, essendo per natura incommensurabili: come già agli studenti delle scuole elementari gli insegnanti sono soliti impartire i rudimenti di aritmetica, attraverso i quali si apprende che è impossibile sommare elementi diversi; così il dualismo libertà positiva/negativa non si può risolvere per confusione (o per fusione o incorporazione).
Non si deve né è possibile, in sintesi, affermare in assoluto quale sia la «vera» libertà, laddove è opportuno concludere, invece, che la libertà negativa sia il fine "liberale" ultimo cui il cittadino dovrebbe pretendere che lo Stato aspiri.

(segue): Libertà positiva e obbedienza. Come scrive Bobbio, «se una difficoltà esiste rispetto alla libertà positiva, non sta nel [...] distinguerla dalla libertà negativa, quanto nell'individuare il momento in cui si possa dire che una volontà è determinata da se stessa», ovvero è autodeterminata. Occorre allora distinguere la «vera» libertà (positiva) da quella apparente. Essendo quella un attributo della volontà, sarà «vera» se è assente qualsivoglia interferenza e se è espressione della Voluntas e non di una volontà qualunque. 

Evidentemente la distinzione è delicata se non capziosa. Secondo soluzioni note, questa volontà può assumere le forme della volontà generale di Rousseau, dello Statalismo hegeliano, del legalismo positivista: nel primo caso, la volontà superiore prescinde la somma delle particolari e si manifesta attraverso le leggi; nel secondo è incarnata dal grado di massima espressione da parte dello Stato di una struttura razionale prevalente sugli individui; nell'ultimo, dalla riduzione (che Bobbio definisce «positivismo ideologico») della libertà (e in particolare di quella morale) al diritto positivo statale. Nei tre casi il concetto di libertà è generalmente obbedienza a un principio superiore, trascendente o immanente che è «volontà pura». 

Libertà individuale e collettiva. Già la teoria di Constant pone problemi. Nel paragonare «la libertà degli antichi a quella dei moderni», il filosofo asserisce (tra l'altro in maniera assai semplificata e paradigmatica) che nella società antica greco-romana poteva dirsi soggetto «libero» il popolo, in quella moderna (quella liberale post-rivoluzionaria) l'individuo, ovvero un individuo particolare detto «soggetto di diritto» o comunemente «cittadino». Espressione di questa dicotomia sarebbe la diversa natura di diritti di cui antichi e moderni godono: diritti esclusivamente politici, cioè di determinazione del governo, i primi; diritti individuali, di determinazione della propria sfera economica e privata, i secondi.

L'impronta liberale dell'analisi di Constant, che come è noto promuove una concezione individuale di libertas, porta a escludere che la «vera» libertà sia collettiva.
In posizione diametralmente opposta, Marx afferma la libertà delle classi attraverso il superamento delle classi stesse come unica libertà possibile che conduca al principio universale della liberazione dell'uomo da ogni ingiustizia (ideale di cui, per altro, è foriero il proletariato tedesco, secondo gli scritti di Critica alla filosofia del diritto di Hegel).
Secondo una media sententia, a mio avviso, non è libertà la libertà di pochi, la quale, essendo fondata sulla disuguaglianza, è piuttosto privilegio. Questo dal punto di vista dei singoli. Ma poiché, come adesso è chiaro, libertà è privilegio se non temperata da uguaglianza, si impone anche la necessaria libertà di gruppo affinché sia possibile quella del singolo: e, infatti, il singolo partecipa di una situazione socio-economico peculiare "di classe" e la classe è definita dalle stesse barriere socio-economiche a cui l'uguaglianza sostanziale si oppone.

(segue): Libertà e Stato. Constant, per ragioni storiche legate alla contrapposizione all'Ancien Regime, drammatizza e assolutizza il conflitto «autorità/individuo». D'altra parte, l'impulso repressivo dell'autorità non è in re ipsa, bensì deriva da una scelta di esercizio del potere. Uno stato (contemporaneo) costituzionale, democratico, sociale non esclude totalmente il suo potere coattivo a favore della sola autonomia privata, ma lo indirizza alla realizzazione di obiettivi etico-politici giuridicamente e storicamente determinati: istruzione, sanità pubblica, redistribuzione del reddito, assistenza sociale, tutela del lavoro e dell'ambiente. Ovviamente, la critica tradizionale che si può muovere a quest'ultima visione consiste nel rischio di un utilizzo degli stessi meccanismi costituzionali, democratici, sociali per sovvertire gli obiettivi originari. In tal caso possono soccorrere meccanismi di controllo sostanziale (i tribunali costituzionali, procedimenti c.d. "aggravati") teorie meta-giuridiche (una su tutte, la teoria di Popper sulla demarcazione «società aperte/società chiuse»).

Il rapporto fra individuo e Stato si ripropone in modi diversi. La divisione classica è quella liberal-borghese che propugna la scissione Stato/società, unitamente alla considerazione della seconda come totalità di individui (c.d. concezione atomistica): nell'ideale borghese le questioni di libertà negativa, individuale e dallo Stato si sovrappongono. Solo storicamente può essere compresa l'avversione del cittadino post-rivoluzionario nei confronti dello Stato: esso si identifica, allora, nell'apparato amministrativo e nel potere arbitrario che dispone anche della libertà personale.
La storia delle teorie filosofiche dello Stato in relazione al corpo sociale può essere, invero, ridotta allo schema subalternità - divisione - cooperazione: nello Stato assoluto il Leviatano è la negazione della libertà (dell'individuo nella società), nello Stato di diritto l'estraneità dello Stato alla vita privata è garanzia di diritti, nello Stato sociale del secondo dopoguerra l'interventismo dello Stato è lo strumento per "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale" e assicurare una necessaria forma di libertà, reinterpretata alla luce del principio di eguaglianza sostanziale.

(Simone Risoli)

sabato 29 settembre 2012

Brevi riflessioni settimanali

Dimmi chi sono quegli uomini lenti
coi pugni stretti e con l'odio fra denti;
dimmi chi sono quegli uomini stanchi
di chinar la testa e di tirare avanti...

(Francesco Guccini, Primavera di Praga)


Poche parole sono sufficienti

lunedì 24 settembre 2012

Mangiatori di patate

(I mangiatori di patate, ovvero dall'estetica della povertà al desiderio di solidarietà; Caffè di notte, ovvero la distanza dagli uomini percepita da chi predica la vicinanza).

I

Il tempo non vuole sentire,
il tempo è coperto di seta sfibrata
che nasconde gli squarci.

Che belli quegli zigomi orrendi,
la pelle di patate estirpate ai campi!
Mangiando le scorze, non resta che scorza
per pelle rappresa,
come un'ostrica spoglia
ad asciugare su uno scoglio.

Giunge per mare l'eco
e lo stesso verso di pennellate.
La donzelletta vien dalla rappresaglia
delle ore
e a stento la consola
la notte chiara e dolce e senza vento.


II 

La notte è tutta poesia
nella casa di fronte illuminata.
Carte ora frusciano, i campi ora sono
il blu della volta celeste
e sembra sentirsi un suono
campestre
e impazienti nitriti di consolazione.

Ma questo si ode nel silenzio oltre le finestre.
La nebbia dell'ultima notte prima del giorno
è impenetrabile da questo vetro d'argento,
i palazzi sono mosaici dipinti
nelle reti delle zanzariere
e sembra sentirsi stridere
il nitrato di altra consolazione.

(Simone Risoli, 2011/2012)

mercoledì 19 settembre 2012

"E qualcuno dirà che c'è un modo migliore"

Appunti ermetici su Non al denaro, non all'amore, né al cielo. 


Non al denaro, non all'amore, né al cielo è l'esempio della reinterpretazione che approfondisce e crea dall'esistente un'opera talvolta migliore dell'originale.
Discutere di un album musicale pubblicato nel 1971 può essere un evidente anacronismo - un attaccamento inspiegabile al passato, in una sorta di cieca venerazione. Tanto più, bisogna considerare che i testi e le musiche di Fabrizio De André e Nicola Piovani (di cui l'album si compone) sono già storicamente anomali, come appaiono a prima vista molte scelte dello stesso De André: la scelta del 1970 di occuparsi della "Buona Novella" in periodo di contestazioni politiche, contro l'organizzazione patriarcale e gerarchica della famiglia, contro l'influenza della religione sui costumi e la libertà individuale; quella del '71 di recuperare un'antologia poetica (Spoon River) che lascia parlare i morti, in un periodo di lotte sociali e civili in Italia.
Nel tempo ci si è convinti (forse anche inconsciamente) che gli individui "cosmico-storici" debbano interpretare e incarnare lo "spirito" del tempo, senza soffermarsi, però, sul significato che questa "incarnazione" dovrebbe ricoprire. In realtà, "incarnare" lo spirito presente (ammesso che questo "spirito" esista e non sia una vuota espressione) significa, talvolta, non allinearsi al senso condiviso del tempo o scegliere una posizione particolare per denunciarne le contraddizioni: l'opera migliore del Pierre Menard di Borges è la riscrittura del Chisciotte.
Forse questa è la posizione dell'intellettuale distaccato, indifferente ai problemi sociali, metafisico e "eliotiano", che respinge ogni coinvolgimento politico, aspirando a una pace individuale già di per sé complessa da ricercare, capace di riconoscere la propria inadeguatezza a interferire col mondo (capace, al più, come scriverebbe il giovane Eliot, di trovare il coraggio di "mangiare una pesca")?
Certamente non è la posizione di Spoon River e di De André, in cui quella politica diventa aspirazione ad affermare la piena libertà degli individui, svincolandosi dalla sua natura di gestione del potere.
Dopo un secolo dalla pubblicazione dell'Antologia di Spoon River e quarant'anni da quella di Non al denaro, non all'amore, né al cielo, come il Chisciotte di Borges la storia si scrive ex novo.
Nell'opera del '71, in particolare, la collina di Spoon River è il riflesso attualissimo della società contemporanea, nonostante l'autore (ecco perché l'anacronismo è puramente apparente) l'avesse concepita come riproposizione della poesia di Lee Masters, quindi inattuale già al tempo dell'incisione del disco.
Sarebbe inutile sottolineare che il senso letterale delle opere è solo una componente dell'intero.
Talvolta, lo stesso titolo delle poesie rivela l'essenza della riscrittura, che è generalmente universale nella misura in cui è ancora attuale, e non genericamente attuabile: Dietro ogni scemo c'è un villaggio, la più efficace denuncia dell'ipocrisia e della costruzione di falsi ideali da parte delle maggioranze assieme a Smisurata preghiera (Anime Salve, 1996); Dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato, l'espressione degli inganni e delle mistificazioni delle religioni e del fanatismo che si riducono, in ultima analisi, a meccanismi di controllo del potere, il quale agisce nelle antiche forme della coazione fisica, fino al delitto (qualcuno ricorderà, nel legame superstizione-delitto, il mito di Ifigenia raccontato da Lucrezio) e nelle forme nuove di indebolimento culturale ("...e non Dio, ma qualcuno che per noi lo ha inventato ci costringe a sognare in un giardino incantato").
Jones il suonatore sembra salvarsi oltre la salvazione.

IL SUONATORE JONES
In un vortice di polvere
gli altri vedevan siccità,
a me ricordava
la gonna di Jenny
in un ballo di tanti anni fa.
Sentivo la mia terra
vibrare di suoni, era il mio cuore
e allora perché coltivarla ancora,
come pensarla migliore.

Libertà l'ho vista dormire
nei campi coltivati
a cielo e denaro,
a cielo ed amore,
protetta da un filo spinato.
Libertà l'ho vista svegliarsi
ogni volta che ho suonato
per un fruscio di ragazze
a un ballo,
per un compagno ubriaco.

E poi se la gente sa,
e la gente lo sa che sai suonare,
suonare ti tocca
per tutta la vita
e ti piace lasciarti ascoltare.
Finii con i campi alle ortiche
finii con un flauto spezzato
e un ridere rauco
ricordi tanti
e nemmeno un rimpianto.

Ne Il suonatore Jones, violinista nell'originale di Masters, flautista in de André per ragioni metriche, si attua il rovesciamento dei valori tradizionali: Jones è colui che offrì "la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all'amore né al cielo", "sorpreso dai suoi novant'anni" mentre "con la vita avrebbe ancora giocato". La sua figura diventa il punto più alto dell'opera; mentre nella Spoon River classica è uno fra i tanti cittadini, tra cui comunque emerge, in de André rappresenta la sintesi; non è un personaggio straordinario, è dedito al vizio, è sognatore, poetico e materialista e, nonostante questo, e, anzi, in forza di questo, è l'unico personaggio in grado di salvarsi dalla morte, non in senso escatologico, ma attraverso la sua umanità. La vitalità di Jones non lo sottrae alla morte, ma gli consegna un'esistenza semplice, piena, povera di rimpianti che - evidentemente l'autore vuole sottolinearlo - sono quella parte della vita tanto simile a una prematura morte e assai più dolorosa di questa: perché la morte reale, quantomeno, estirpa ogni sensazione e dolore e libera dall'amarezza che i morti di Spoon River riescono ancora a provare solo in forza di una finzione letteraria.

lunedì 27 agosto 2012

L'epigrafe di Lyman King


Forse credi, viandante, che il fato
sia una trappola al di fuori di te,
che puoi evitare usando prudenza
e saggezza.
Così tu credi, quando osservi la vita degli uomini,
come farebbe un dio che si chini su un formicaio,
e veda la soluzione dei loro problemi.
Ma entra nella vita:
col tempo vedrai il fato avvicinarsi
sotto forma della tua immagine allo specchio;
oppure mentre siedi solo al focolare,
d’improvviso la sedia accanto a te avrà un ospite,
e tu riconoscerai quell’ospite,
e gli leggerai il vero messaggio negli occhi.

(E.L.Masters, Antologia di Spoon River)

sabato 25 agosto 2012

Spoon River: la vera e la finta corruzione

Senza appesantire la poesia con eccessivi commenti, è sufficiente premettere poche frasi. 
Appare evidente come in questi versi di E.L.Masters si fronteggino una piccola corruzione dei costumi, innalzata dalla società (dal sentimento sociale) a piaga di grandi dimensioni, infamante, costruita per nascondere o condannare esteriormente passioni e atteggiamenti immorali comuni a tutti gli uomini (tradimenti, passioni carnali, prostituzione), e una corruzione reale, piaga sociale concreta che è concreta corruzione morale: affari loschi, poteri pubblici che ubbidiscono a poteri economici, operazioni finanziarie che perseguono il profitto a ogni costo, disastri ambientali procurati per l'interesse personale.
La prostituta del villaggio paga gli sguardi indignati della gente e le multe del tribunale, mentre i galantuomini restano impuniti: è questa la giustizia ai piedi della collina.
Nulla di nuovo sotto l'ombra di Spoon River?


Daisy Fraser

DID you ever hear of Editor Whedon
Giving to the public treasury any of the money he received
For supporting candidates for office?
Or for writing up the canning factory
To get people to invest?
Or for suppressing the facts about the bank,
When it was rotten and ready to break?
Did you ever hear of the Circuit Judge
Helping anyone except the “Q” railroad,
Or the bankers? Or did Rev. Peet or Rev. Sibley
Give any part of their salary, earned by keeping still,
Or speaking out as the leaders wished them to do,
To the building of the water works?
But I—Daisy Fraser who always passed
Along the streets through rows of nods and smiles,
And coughs and words such as “there she goes,”
Never was taken before Justice Arnett
Without contributing ten dollars and costs
To the school fund of Spoon River!


Avete mai sentito che il direttore Whedon
desse all'erario un po' dei soldi intascati
per appoggiare un candidato?
O per scrivere elogi della fabbrica di scatolette
e spingere la gente a fare investimenti?
O per tacere i misfatti della banca,
quando fu marcia e sull'orlo del fallimento?
Avete mai sentito che il giudice distrettuale
appoggiasse qualcuno tranne le ferrovie «Q»,
o i banchieri? O che il reverendo Peet o il reverendo Sibley
dessero un po' della paga, guadagnata tenendo la bocca chiusa,
o dicendo quel che faceva comodo ai capi,
per la costruzione dell'acquedotto?
E invece io - Daisy Fraser, che passavo sempre
per strada fra due ali di ammicchi e sorrisi,
e colpetti di tosse e frasi come «eccola là»,
non finii mai davanti al giudice Arnett
senza versare dieci dollari più le spese
al fondo scolastico di Spoon River!


giovedì 2 agosto 2012

Spoon River: la purezza scandalosa


Gli intenti sono già chiari dall'ambientazione. Edgar Lee Masters, avvocato figlio di avvocati, abituato attraverso la sua professione a conoscere ed entrare in contatto con la complessità dell'animo umano e con la sua natura primordiale, lascia dialogare le anime di morti di ogni estrazione sociale, che ognuno infami il proprio vicino, si esprima liberamente, senza remore, confessi i propri misfatti, i propri fallimenti, le illusioni giovanili, i rimorsi. Dopo la morte - ecco la dichiarazione implicita di intenti - tutti gli "abitanti" del cimitero di Spoon River si sono liberati del bisogno di ipocrisia a cui la vita sociale li ha costretti. Chi, fra loro, è vissuto senza restrizioni, "senza mai un pensiero non al denaro, non all'amore, né al cielo", sembra aver anticipato in vita la pienezza della propria libertà. La maggior parte dei personaggi, però, si è voluta o dovuta arrendere al giudizio ora concreto di un tribunale, ora infamante, sottile e logorante, come un'infezione invisibile di un distorto e imperante senso comune.
Benché siano numerose le interpretazioni fornite della Antologia di Spoon River (mi piace ricordare senz'altro la riscrittura insuperabile, anche musicalmente, di Fabrizio De André che, esordendo con la presentazione della collina su cui riposano i morti e isolando alcuni personaggi, riconosce nell'opera il lamento umanissimo di chi è vissuto, per scelta o per necessità, di delusione e rimpianto: "Nel disco si parla di vizi e virtù: è chiaro che la virtù mi interessa di meno, perché non va migliorata. Invece il vizio lo si può migliorare: solo così un discorso può essere produttivo", F.De André) è evidente il substrato comune rappresentato dal coro stonato di voci che si accavallano per denunciare finalmente la verità, l'affrancamento dalla tirannia del timore, sia esso familiare, sociale, religioso.
Così, l'inutilità del profitto per morti sepolti che "dormono tutti sulla collina" (il principio celeberrimo della morte che non discrimina, di cui sono ricchissimi la letteratura e la cultura popolare: fra tutti, T.S. Eliot, "Phlebas il fenicio, morto da quindici giorni / dimenticò [...] il profitto e la perdita") sembra liberare alcuni interlocutori dalla smania di successo che spesso li ha condotti a tradimenti, odio, inganni, delitti; l'ateismo e l'eresia sembrano allontanare la paura di una religione asfissiante che diventa strumento di controllo e oppressione; l'amore è un sentimento spesso sopravvalutato che genera morte, sofferenza e rancore, perché si tratta spesso di una costruzione sociale e non di un sentimento, con cui il linguaggio edulcora, nasconde, giustifica disprezzo, volontà di potenza, prevaricazione, orgoglio, desiderio di possesso.
In sintesi, la formula "non al denaro, non all'amore, né al cielo" riassume l'idea di libertà. E, se si volesse confrontare questa conclusione con quella di un autore certamente meno radicale di Masters, la tesi sembrerebbe comunque confermata:
"Quando nasce l'anima di un uomo in questo paese, le sono gettate reti per impedirle di fuggire. Mi parli di nazionalità, di lingua, di religione: io cercherò di fuggire a quelle reti".
(J. Joyce, Ritratto dell'artista da giovane)
Ma Spoon River non è uno scenario positivo, educativo: la purezza dei morti non è la loro redenzione. Nessun segno di ravvedimento o pentimento si scorge, se non nella forma implicita della devastante sofferenza interiore. Alcuni personaggi esprimono con fierezza i modi in cui hanno truffato sprovveduti, condannato a morte innocenti, sposato un uomo o una donna per convenienza, assassinato, rinchiuso il proprio figlio in un manicomio. Da molti altri traspare l'insoddisfazione; da alcuni anche l'onestà, la fedeltà agli ideali, l'integrità morale.
La purezza, però, consiste nella immediatezza. Così come la forma pura si trasmette senza interposizioni e direttamente, la purezza dei personaggi non è la loro santità, ma loro umanità (anche nel senso deteriore del termine) che si presenta, provocatoriamente, senza contaminazione.
La purezza di Spoon River è l'abbandono delle convenzioni che rendono l'uomo migliore di quel che sembra, a una condizione: è chiaro all'autore, tanto quanto poco chiaro è alla generalità delle persone, che tali "convenzioni" non rendono effettivamente migliore gli uomini, non tendono (se è lecito) a migliorarlo, ma ne nascondono la parte "peggiore" sotto un falso concetto elaborato da una maggioranza.
(Ecco perché l'eresia diventa fondamento della conoscenza).

(Seguiranno testi e commenti)

giovedì 26 luglio 2012

APPELLO AI LETTORI


Il sonno della ragione genera mostri, Francisco Goya
Di certo non avrei voluto intervenire in questo modo, interrompendo momentaneamente anche la regolare pubblicazione. 
Tuttavia, confido grandemente nella libertà critica e di pensiero di ciascun lettore che si imbatta in questo luogo.
In breve, da qualche giorno qualcuno potrebbe aver notato inserti pubblicitari in nessun modo autorizzati oscurare o comparire in apertura del sito. Poiché si tratta palesemente di un'intrusione forzata, fondata sulla logica per la quale in ogni caso l'interesse di mercato è preminente, il fatto diviene questione di principio che come tale deve essere affrontata. E poiché il solo modo civile di affrontare la prepotenza e la forza è la conoscenza, chiedo a ciascuno, conosciuta la situazione, di trarre le proprie conclusioni, di ignorare gli avvisi o di prendere posizione contro il prodotto e la forma di pubblicità. 
Quanto alle mie, ritengo che la cultura non sia strumento per garantire profitti ad alcuno attraverso tecniche che si qualificano in tutto come "artifizi e raggiri"; credo che sia un'offesa all'intelligenza del lettore subordinare il suo interesse personale e culturale al suo presunto desiderio di consumo; credo che l'usanza, purtroppo diffusissima, di approfittare di qualunque occasione per promuovere insistentemente e con sotterfugi prodotti commerciali sia ormai da considerarsi, senza eccezioni, il tentativo di ridurre liberi individui autonomamente pensanti in sudditi apatici asserviti a una prassi conveniente.
Spero che i miei venticinque lettori comprenderanno le mie ragioni.

sabato 21 luglio 2012

"Il poeta è un fingitore" ovvero la comunicabilità della poesia e dell'uomo


Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.

(Autopsicografia, F.Pessoa)

Dal verso il poeta è un fingitore si origina un'ampia riflessione sulla creatura poeta anche nella sua natura di essere appartenente al genere umano.
Si tratta, per di più, di una questione centrale che trascende i confini della poesia.
La complessità del tema si può ridurre a uno schema: 
-Presupposto: almeno il poeta conosce se stesso quando scrive: finge consapevolmente.
-il poeta può condividere una parte di se stesso attraverso la poesia?
-il lettore può comprendere il poeta (il dolore del poeta)?
In altre parole, beninteso che proprio la tesi assunta come presupposto (il poeta conosce se stesso) è la più problematica, la poesia possiede una sua peculiare comunicabilità o il problema della poesia si riduce alla sostanziale incomunicabilità del dolore (e di ogni altra "sensazione" anche razionalmente inspiegabile) umano?
Se così può essere impostato il discorso, Pessoa propende esplicitamente per la seconda tesi: fra il poeta-uomo e i lettori-altri esiste una frattura profonda.
Tuttavia, questa cesura ha una duplice origine, dal momento che il poeta dispone del migliore strumento in suo possesso per comunicare la propria sofferenza, senza riuscire nell'intento: l'evocazione, il suggerimento, un uso deformato e personalizzato della logica, la grande allegoria del "correlativo oggettivo" sono finzione con cui il poeta non può altro che comunicare un'immagine o una falsa rappresentazione di sé; del pari, il lettore, si trova "tre gradi lontano dal vero": non può conoscere la sofferenza reale del poeta, può, al massimo, approcciarsi alla "finzione del dolore" che il poeta gli offre; ma nemmeno questa riesce a comprendere. Infatti, «quanti leggono ciò che scrive / nel dolore letto sentono proprio / non i due che egli ha provato / ma solo quello che essi non hanno».
Qual è la ragione di questa distanza? Procedendo per ipotesi, sembra che il solo modo per conoscere il dolore sia la condivisione, o meglio, la partecipazione. La forma più pura di partecipazione al dolore (che permette comunicabilità e comprensione) è l'eliminazione della differenza fra la sofferenza propria e altrui
Così Schopenhauer: 
Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa (Il mondo come volontà e rappresentazione).

Se solo la compassione permette di comunicare il dolore del poeta e dell'uomo, sorge spontaneo domandarsi: è possibile una sofferenza universale reale che non sia soltanto adesione esteriore?
Se il poeta è fingitore (e finge così completamente), se nel dolore letto gli altri sentono quello che essi non hanno, riducendo il dolore estraneo a un elemento che giace al di fuori della propria percezione e ricade, al più, nei loro discorsi sentimentali come motivo di orgoglio, è vera la sostanziale incomunicabilità del poeta anche attraverso la poesia. Il dolore rimane per natura un sentimento individuale che poesia e poeta, consapevole fingitore, si illudono di comunicare; sola conseguenza positiva è l'effetto consolatorio che da questa finzione o illusione si può trarre (cfr. Leopardi), ma è ineliminabile che «per tutti il dolore degli altri / è dolore a metà» (Disamistade, F. De André).A una tale conclusione provvisoria si può tanto pessimisticamente quanto realisticamente approdare. Per recuperare il nesso iniziale, alla base di una parte della incomunicabilità della poesia è forse l'indeterminatezza di cosa significhi e in che modo possa avvenire la comunicazione dell'uomo, la quale pare descritta, secondo Pessoa, da un meccanismo che si sottrae alla ragione («sui binari in tondo / gira, illudendo la ragione, / questo trenino a molla / che si chiama cuore»).
D'altra parte, bisogna analiticamente ammettere che la poesia sia tentativo di rendere comunicabile quanto è incomunicabile di natura, solo se si accetta il senso più profondo e esistenzialista della "comunicabilità fra coscienze". Più sinteticamente, forse il difetto non è nella poesia, ma nella natura - rectius nelle scelte che determinano la natura - umana.

martedì 17 luglio 2012

A cosa serve la poesia?

(passi dall'intervento al liceo "Machiavelli", aprile 2012)

Scriveva un insigne storico dell'architettura che occuparsi dell'arte dei Greci pone lo studioso in una situazione di grande difficoltà: poter indagare quei remoti abitanti dell'Attica lucidamente, sine ira et studio, criticamente, senza essere coinvolti in prima persona per il debito culturale che si conserva nei loro confronti. La difficoltà insita in questa operazione è il rischio di creare confusione, rivolgendosi a chi ascolta con la presunzione o la certezza che ciascuno partecipi pienamente all'argomento. Trasmettere e percepire la poesia è un'operazione logorante che impegna l'interezza di sé: la poesia si scrive e si legge con l'interezza della persona e del corpo (così anche Pasolini).
Fuor di metafora, per quanto affascinante sia occuparsi di poesia, proprio questo è il principale limite alla sua spiegazione. Qualcuno si è mai chiesto perché la poesia o l'arte, generalmente, si comunicano e non si spiegano? Questo non significa che nella poesia non esista nulla di razionale: la storia della letteratura contraddice la certezza di una natura puramente intuitiva dell'arte. Si pensi a Leopardi (La ginestra) e a Eliot. Quest'ultimo fu accusato da un poeta suo contemporaneo di essere un freddo, arido, servile «stupratore di Dante e galoppino di Hegel».
D'altra parte, la poesia non è nemmeno, a dispetto dell'etimologia, attività tecnica: è difficile indicarne le "fasi di produzione" e, ad ogni interpretazione, ciascuna fase non viene soltanto ricostruita, ma spesso integrata e creata ex novo. Proprio questo è il primo motivo, a mio avviso, dell'utilità poetica attuale. Il primo modo per essere “compromessi” con la poesia è la lettura. Leggere e interpretare significa vivificare: questo approccio alla poesia permette una sua riscrittura “utile” all'individuo (e alla società degli individui). Borges lo riassumeva simbolicamente in un personaggio che, intento a tradurre il Don Chisciotte di alcuni secoli prima, vi riconosceva i fatti presenti, al punto da iniziare a riscriverne la storia, plasmandola sugli avvenimenti attuali.
È fondamentale una premessa, a mio avviso. Trattare di “utilità” della poesia è un modo volutamente provocatorio per rivolgersi a chi sostiene che l'essenza della letteratura sia proprio l'assenza di una finalità. Affermare che la poesia sia “utile” non significa assegnarle un valore economico, ma riconoscerle un ruolo individuale, psicologico, sociale, universale, esistenziale; significa non relegarla nell'anonimato, nelle attività di evasione, ma riconoscerle un ruolo indispensabile. Significa quantomeno discutere se e in che modo la poesia possa contribuire alla umanità o, come scriveva Mario Luzi, alla salvezza dell'uomo.
(...)

Esiste una definizione di poesia?
Il termine “poesia” assorbe una serie di concetti: questo è il nucleo del problema. Definire il termine, significa trovare soluzione a ogni contrasto intorno alla poesia.
Ma definire che cosa sia "poesia" è, allo stesso tempo, il risultato finale della ricerca, come scegliere un'unità di misura presuppone che quel che si vuole studiare è misurabile.
Su un significato convenzionale-provvisorio bisogna, però, accordarsi per procedere a un'analisi successiva.
Nell'immaginario comune vale l'equazione (spesso criticata, cfr. Sanguineti) poesia = andare a capo a fine verso. Vorrei proporne invece un'accezione più ampia in cui "poetica" sia sinonimo, in senso lato, di "concezione dell'esistenza": ogni uomo è poeta (come afferma Gramsci) nella misura in cui «non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens»e, cioè, ogni uomo è «un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale».

(...) In definitiva, non credo che la poesia debba essere inutile per potersi considerare degna, né penso che la poesia “utile” sia “nociva” (...).
Credo, però, che la poesia “utile” – non in senso economico-utilitaristico, ma nel senso di elemento per la conoscenza e strumento propositivo in ambito sociale – oltre a non essere nociva, sia “benefica”. Conoscendo persone estranee alla poesia, percepisco l'incompatibilità, la mancanza di tentativo, di avvicinamento dettato dalla domanda: A che serve?
È vero che l'avvicinamento è reciproco. Non si può negare l'essenza della poesia per renderla un prodotto ambìto e commerciale: sarebbe celebrarne il funerale nel peggiore dei modi.
Ciò che intendo dire è altro: se nella poesia il poeta riesce a riscoprire la sua completezza di uomo come individuo, come animale sociale, come essere gettato nell'universo, potrà aggiungere alla sua passione una aspettativa (politica?) di cambiamento, un tentativo di riforma culturale, un approccio nuovo alla realtà.
Con ciò la poesia non si corrompe ma, a mio avviso, si vivifica. Rendendola utile in questo senso, non la si sta piegando a esigenze esterne (il mercato), ma le si conferisce una funzione totalizzante. Si arriva, pertanto, a una conclusione provvisoria. Se non è possibile una definizione risolutiva del termine “poesia” sul piano critico, è ammissibile una conclusione provvisoria personale. Si potrebbe affermare: la ragione, in quanto empirica, ammette conclusioni che la ragione stessa, in quanto universale, deve cautamente escludere.
La poesia è una scelta di vita. Una scelta lato sensu.
Come le scelte può essere anche irrazionale: “c'è chi ama calcare con le ruote ardenti del carro la meta... chi solcare gli oceani... chi arare i suoi campi a condizioni attaliche... ma basta includermi nella cerchia dei poeti e sfiorerò col capo leggero gli astri” (scrive, più o meno, Orazio). Tuttavia, si può tentare comunque una spiegazione razionale della scelta: la razionalità, in misura diversa nelle persone, è una delle componenti fondamentali della scelta.
Nel romanzo di uno dei miei autori preferiti, Thomas Mann, il protagonista Serenus Zeitblom racconta un episodio della sua infanzia che lo aveva affascinato: nella sua casa di campagna aveva osservato il padre del suo fraterno amico immergere un cristallo in una soluzione salina e, estraendolo, vederlo accrescersi. Nelle pagine che seguono il protagonista racconta che da allora si sarebbe edicato alla letteratura.
L'accostamento può sembrare sconnesso con ciò di cui stavo parlando. Il nesso, invece, è questo: in quella reazione chimica perfettamente spiegabile, fase per fase, il protagonista, in tenera età, non coglie i particolari scientifici, ma si abbandona al richiamo quasi mistico di quell'esperienza.
Dedicarsi alla letteratura (e alla poesia) è in parte simile. Non penso che significhi abbandonarsi a fantasticherie senza senso (la mia formazione rigidamente razionale lo escluderebbe categoricamente), ma, invece, cercare soluzioni sempre provvisorie laddove non se ne conoscono. Davanti alla realtà il poeta moderno deve essere consapevole che nei fatti che osserva sta scorrendogli davanti "la verità" (quella scientifica, quella logica...). La sua opera non è cogliere quella verità nella natura, ma nemmeno creare la natura. È intuire e sviluppare una consapevolezza nuova, con la coscienza del limite della sua intuizione. "Da ragazzo te ne stavi lunghe ore / sulla riva del torbido Spoon / a fissare la tana del gambero [...] / e ti domandavi rapito nel pensiero / cosa sapesse, cosa desiderasse e perché mai vivesse" ("Theodore il poeta", E.L.Masters).
La poesia è una maggiore consapevolezza.
Appropriarsi della poesia (anche con la lettura) è riappropriarsi del linguaggio (e con questo del ragionamento) e del linguaggio poetico (e con questo della flessibilità mentale).

Simone Risoli, A cosa serve la poesia? )

giovedì 12 luglio 2012

Epigrammi, XI


11
ai compagni Cortoniani
Forse ricordi le notti insonni,
il cieco idealismo,
i frantumi del mondo
riordinati uno a uno.
La sera, ricordo, scendeva nell’acqua la luce
e s’immergeva nella palafitta
di alberi il sole,
quando era scherzo o discorso da dotti
parlare di morte.

Quando abbiamo deciso di diventare altro da noi?
Non era annebbiato il futuro di logica immatura.
Non era una corsa sui vetri.

20 gennaio 2011

Simone Risoli, Epigrammi

domenica 8 luglio 2012

Canzone per l'estate



Con tua moglie che lavava i piatti in cucina e non capiva ,
con tua figlia che provava il suo vestito nuovo e sorrideva,
con la radio che ronzava
per il mondo cose strane
e il respiro del tuo cane che dormiva.

Coi tuoi santi sempre pronti a benedire i tuoi sforzi per il pane,
con il tuo bambino biondo a cui hai dato una pistola per Natale,
che sembra vera,
con il letto in cui tua moglie
non ti ha mai saputo dare
e gli occhiali che tra un po' dovrai cambiare.

Com'è che non riesci più a volare?

Con le tue finestre aperte sulla strada e gli occhi chiusi sulla gente,
con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente,
la tua coda di ricambio,
le tue nuvole in affitto,
le tue rondini di guardia sopra il tetto.

Con il tuo francescanesimo a puntate e la tua dolce consistenza,
col tuo ossigeno purgato e le tue onde regolate in una stanza,
col permesso di trasmettere
e il divieto di parlare
e ogni giorno un altro giorno da contare.

Com'è che non riesci più a volare?

Con i tuoi entusiasmi lenti precisati da ricordi stagionali,
e una bella addormentata che si sveglia a tutto quel che le regali,
con il tuo collezionismo
di parole complicate,
la tua ultima canzone per l'estate.

Con le tue mani di carta per avvolgere altre mani normali,
con l'idiota in giardino ad isolare le tue rose migliori,
col tuo freddo di montagna
e il divieto di sudare
e più niente per poterti vergognare.

Com'è che non riesci più a volare?
com'è che non riesci più a volare?
com'è che non riesci più a volare?

(Fabrizio De André)

giovedì 5 luglio 2012

Al millesimo lettore


Ho esordito tre mesi fa rivolgendomi al mio venticinquesimo lettore, l'ultimo di quelli che, con falsa modestia, componevano il pubblico manzoniano, fissando un obiettivo che non si proponeva di essere raggiunto, ma ambiva ad essere  affrontato. 
Aver raggiunto anche il millesimo lettore non è quindi un risultato se si esclude che un tale evento non si era rappresentato nemmeno come seriamente possibile, che non si era ricercato e, perciò, mancava il presupposto per sperarlo. Non è un gran risultato nemmeno se si considera che questi mille lettori sono in realtà meno e sono, anzi, molti meno, gli stessi che piuttosto abitualmente ritornano a visitare questo luogo. Questa forma di curiosità anche abituale (o questo ritrovarsi casualmente in un luogo) non è, però, privo di valore, per la ferma convinzione che l'espressione e la condivisione delle idee è la vivificazione dell'individuo ed è il punto di partenza per riconoscere o dubitare di appartenere alla comune cittadinanza umana attraverso "la ragione".
Casa è il luogo da cui uno parte. Un verso dell'ormai conosciuto ai lettori, Eliot, tradotto, ha questo suono. Non sono mai riuscito a determinare tutti i significati possibili di questo verso: "la casa è punto di partenza" può significare infiniti concetti. A questo punto vorrei proporne uno filologicamente inesatto, ma adatto alla situazione, in versi che recuperano una serie di citazioni (tecnica congeniale alla poesia sperimentale del Novecento):

Casa è il luogo da cui uno parte 
- Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta 
si è posato uno sguardo consapevole su se stessi.
(Alcuni dicono che quando è detta la parola muore.
Io dico invece che proprio quel giorno comincia a vivere)
Una mescolanza adultera di tutto 
per dire qualcosa

domenica 1 luglio 2012

La «Gloriosa Rivoluzione» Americana


La Corte Suprema americana si è espressa, nei giorni scorsi, a favore della riforma sanitaria approvata dal presidente Obama. Il consenso della Corte Suprema, vertice del potere giudiziario, realizza negli Stati Uniti una funzione non secondaria di verifica della conformità di una legge alla Costituzione. In altre parole, la Corte Suprema ha affermato definitivamente che fra i principi espressi dalla Costituzione del 1787/89 e la volontà di creare un sistema sanitario aperto a tutti i cittadini non esiste contrasto.
Per un cittadino europeo è incomprensibile che in un Paese emblema di libertà e democrazia persistesse un residuo del liberalismo di vecchio stampo, che permettesse solo ai più facoltosi di usufruire di cure sanitarie e abbandonasse alla loro sorte gran parte dei cittadini indigenti. In una formula, il moderno sistema americano ancora tollerava che, persino in materia sanitaria, laddove sia in gioco l'interesse primario della vita, il singolo provvedesse a se stesso e l'incapace “s'arrangiasse”.
La riforma sanitaria approvata nel marzo del 2010 modifica la legislazione precedente sotto diversi aspetti. Negli Stati Uniti il sistema sanitario si fonda su assicurazioni stipulate direttamente dai cittadini, con l'esclusione di persone a basso reddito non affette da patologie pregresse tutelate da alcuni programmi ad hoc. In quanto contratti, le assicurazioni si basano sulla forza contrattuale delle parti, non offrono le garanzie di una tutela pubblica ed escludono, a discrezione della società assicuratrice, i soggetti che non costituiscono fonte di guadagno. Gli stessi cittadini impossibilitati, d'altro canto, potrebbero non ricevere un rifiuto dell'assicurazione, ma la richiesta del pagamento di premi spropositati per la copertura dei rischi assunti dalle società, richiesta che equivale a esclusione dalla stipulazione e, quindi, dal diritto alle cure sanitarie.
Sotto questo aspetto, la Riforma Obama non è rivoluzionaria nei contenuti, ancora lontani dalla realizzazione di un sistema europeo, perché risente talora della diffidenza anglosassone verso gli interventi pubblici. La legge, infatti, non interviene trasferendo allo Stato oneri finanziari e poteri per un sistema sanitario pubblico, ma prevede un intervento esterno del Governo sul sistema privato di stipulazione delle polizze, consentendo allo Stato di obbligare società e cittadini (in difficoltà) a concludere contratti di assicurazione a condizioni fattibili. E tuttavia, è impossibile negare il carattere sostanzialmente rivoluzionario della Riforma e della decisione della Corte Suprema.
Quando la Corte Suprema si pronuncia su argomenti del genere, il risultato è una silenziosa, gloriosa rivoluzione. Rientra nella tradizione “mite” anglosassone, che già nel 1688 annunciava al Continente distante un secolo dalla caduta dell'Ancien Regime, una gloriosa rivoluzione, un trionfo istituzionale, il raggiungimento a tutti gli effetti di una forma liberale di Stato in cui il potere assoluto si frazionava in poteri bilanciati fra loro e la politica generale si costruiva per dialettica e sintesi, invece che per ratificazione di una volontà univoca: una rivoluzione cauta, senza spargimenti di sangue e per via che gli storici, dopo Bernstein, definirebbero “riformista”.
L'operato della Corte Suprema (come quello del Parlamento inglese della fine del secolo XVII) è fortemente politicizzato, nel senso positivo del termine, perché storicamente contribuisce a segnare cambiamenti culturali e politici epocali. Parte di questo ruolo dipende dalla composizione peculiare della Corte, costituita da giudici nominati a vita dai Presidenti americani, del cui indirizzo politico tendono a essere espressione, anche nell'interpretazione della legge costituzionale.
Quando una componente prevale sull'altra, la Corte traduce in concreto indirizzi innovatori, senza modificare formalmente la Costituzione (che infatti risale a oltre due secoli fa), ma adeguandola.
Così, l'avvallo nel 1937, da parte della Corte, del New Deal rooseveltiano, il nuovo corso di finanziamenti pubblici, sostegno ai redditi e all'industria, creazione di enti nazionali, statalizzazioni e realizzazione di opere pubbliche per l'occupazione, fu a lungo osteggiato dai giudici che lo credevano in contrasto con i principi di libertà economica e liberistici espressi dalla Costituzione, ma segnò un importante “svolta riformista” verso lo Stato sociale e la più piena democrazia. Diversamente, in Europa il costituzionalismo democratico-sociale, certamente meglio realizzato, si ottenne a costo della seconda guerra mondiale e del nazifascismo, così come il prezzo del liberalismo e dello Stato di diritto furono la ghigliottina e la Restaurazione. 
Per queste ragioni la Riforma Obama avvicina maggiormente al modello ideale lo Stato sociale americano, per la verità ancora fortemente imperfetto, e potrebbe essere una seconda fase del nuovo corso o una rivoluzione, "gloriosa" nel metodo. L'atteggiamento politico è analogo, quel che cambia è questo: mentre la Rivoluzione inglese ha segnato un antecedente storico del cambiamento nei rapporti fra Stato e società, l'esperienza americana, su questo terreno come su altri, giunge forse tardiva (ma proprio per questo più necessaria). 

mercoledì 27 giugno 2012

Sul sentiero di Eliot

Ci sono almeno tre ragioni per le quali, sporadicamente e senza un ordine preciso, sto presentando e anteponendo a una "trattazione sistematica" o anche monografica del poeta inglese T.S.Eliot un approccio diretto ai suoi testi: una di ordine strettamente personale, perché in particolare Eliot è un modello per lo stile e i contenuti (e perché in questa direzione sono sostenuto da alcuni amici lettori); una seconda dipende dalla volontà di diffondere, forse ambiziosamente, l'opera di un autore troppo a lungo confinato fra gli intellettuali rinchiusi in una personale turris eburnea. Una terza è conseguenza di quel che lo stesso Eliot suggeriva.
Genuine poetry can communicate before it is understood. The impression can be verified on fuller knowledge; I have found with Dante and with several other poets in languages I was unskilled, that about such impressions there was nothing fanciful. They were not due, that is, to misunderstanding the passage, or reading into it something not there, or to accidental sentimental evocations out of my own past. The impression was new, and of, I believe, the objective poetic emotion. (La poesia genuina può comunicare prima di essere compresa. L'impressione può essere verificata a una più approfondita conoscenza; ho provato con Dante e tanti altri poeti, letti in lingua originale, di cui non conoscevo niente; una simile impressione [suscitata dalla poesia] era pura, non era deformata dall'immaginazione. Non c'era bisogno, né rischio che fraintendessi i passaggi o che ci leggessi qualcosa che non c'era o che riportasse a un'evocazione particolare del mio passato. L'impressione era nuova, di quelle che credo un'oggettiva emozione poetica).
 A questo proposito, negli intermezzi sarebbe interessante trasformare questo spazio in un'offerta alla condivisione e al dibattito, che preceda una sua annotazione critica e quanto più possibile originale. 

SPLEEN

Sunday: this satisfied procession
Of definite Sunday faces;
Bonnets, silk hats, and conscious graces
In repetition that displaces
Your mental self-possession
By this unwarranted digression.

Evening, lights, and tea!
Children and cats in the alley;
Dejection unable to rally
Against this dull conspiracy.

And Life, a little bald and gray,
Languid, fastidious, and bland,
Waits, hat and gloves in hand,
Punctilious of tie and suit
(Somewhat impatient of delay)
On the doorstep of the Absolute.

Domenica: questa processione soddisfatta
di sicure facce domenicali;
cuffie, cappelli di seta, consapevoli grazie
in una ripetizione che spiazza
il pieno possesso delle facoltà mentali
con questa digressione ingiustificata.

Sera, luci e tè!
Bambini e gatti per la strada,
depressione incapace di affrontare
questa cupa cospirazione.

E la Vita, calva e grigia,
languida, esigente e slavata
aspetta, cappello e guanti in mano,
raffinata nell'abito e nella cravatta,
un po' impaziente del ritardo,
davanti alla soglia dell'Assoluto.

(trad. libera, S.R.)