domenica 24 giugno 2012

Le città di Calvino. Un'ipotesi di lettura



Abbiamo aperto la questione ambientale!

Ne Le città invisibili (1972) il racconto delle città di un Impero in rovina, in forma di resoconti a Kublai Khan stilati da Marco Polo, si fonde con una descrizione ideale, lasciando abbandonare il lettore, almeno una volta, a una considerazione estetica: esiste un solo genere migliore della poesia ed è la prosa poetica.
Nasce così la riflessione sulle città (e tutto ciò che rappresentano) «impossibili» secondo l’autore, ma attuali, che «s’allargano in città concentriche in espansione», «città-ragnatela sospese su un abisso», città che solo in tarda età rivelano il loro splendore nascosto nel ricordo di una scala di gusci di chiocciole o di friggitorie illuminate a notte fonda.
Le città invisibili – come dichiarò lo stesso Calvino – sono «un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili», un'ipotesi alternativa di concepire la città come luogo di scambio e interazione e lo sviluppo urbanistico come processo di espansione delle relazioni, intrecci di memorie ed esigenze, polis corporea che vive attraverso mura in costruzione ed edifici crollati. Poiché lo stesso autore lo suggerisce, le città invisibili possono assumere significati nuovi e la convivenza, nel racconto, fra utopia e realtà (fra inferno e utopia) sono in grado di mostrare quel che oggi la città possa rappresentare. La questione urbanistica e la questione ambientale diventano un tutto organico, perché si rivelano entrambe un’appendice della questione antropica.
Il nucleo del problema si trasferisce dalla condanna della città, della costruzione, della tecnologia all'azione umana, che diventa operazione interpretativa (nella misura in cui conferisce un significato, positivo o negativo), creatrice e distruttrice. Un significato della città e dell’ambiente non potrebbe esistere indipendentemente dalla coscienza umana; mentre ambiente e città, come realtà fisiche, possono esistere indipendentemente dall'uomo (ma non è valida l'implicazione inversa). Così, nel rivolgere lo sguardo a quanto è accaduto (la storia) o nel tenderlo a quanto dovrebbe accadere (il progetto), l’urbanizzazione, la piena disposizione dell’ambiente da parte dell’uomo (la piena disposizione dell’uomo da parte di altri uomini) presentano possibilità sempre diverse e la razionalità del problema si riduce a scelta. La scelta non cade sul'an (il se), ma sul quomodo (in che modo) disporre; l'effetto della scelta è irreversibile, perché segna una prassi: il modo di concepire e attuare la concezione non coinvolge soltanto i materiali, l'estetica, l'aspetto della città, ma è il riflesso del modo in cui si costruiscono le idee di convivenza e umanità.
In due interventi agli studenti universitari di New York, Calvino affermò:
«Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quella che il libro evoca, ma che si svolga, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. Da qualche amico urbanista sento che il libro tocca vari punti della problematica, e non è un caso perché il retroterra è lo stesso. E non è solo verso la fine che la metropoli dei big numbers compare nel mio libro; anche quel che sembra evocazione di una città arcaica ha senso solo in quanto pensato e scritto con la città di oggi sotto gli occhi.Che cos'è oggi la città, per noi? Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell'ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici (…). La crisi della città troppo grande è l'altra faccia della crisi della natura. L'immagine della “megalopoli”, la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro».
È trascorso qualche decennio dal 1973. Il percorso paradigmatico della città ha raggiunto risultati ben più complessi, ma ancora ascrivibili alla formula aperta fissata da Le città invisibili. Soprattutto, quella metafora (non tanto immateriale, però, come è l'allegoria) ora può essere riletta nella sua forma pura di monito all'atteggiamento, psicologico e individuale o pratico e collettivo, dell'uomo; senza tetre previsioni, catastrofismo, pregiudizio verso l'attività umana ma con un avvicinamento a quel che può significare, con l'azione (l'esempio) o con la volontà espressa. Nessuna condanna alle città, che sono riflesso umano e sono «un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio: le città sono luoghi di scambio».
Ma questi scambi – come illustrano i libri di storia economica – «non sono solo scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» e queste città (rectius la generalità delle città invisibili) sono immagini, potenziali «città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nelle città infelici» e nell'infelicità complessiva di un Kublai Khan imperatore, possessore di tutte le città (e, quindi, colui che ne dispone), che al termine del suo regno osserva malinconico e impotente la rovina, la crisi, la disgregazione di quella potenza, di quella proprietà che ora sfugge al suo controllo

(Simone Risoli)

1 commento:

  1. Grande critica positiva alle città e al loro sviluppo sconsiderato proveniente dall'uomo e per l'uomo. Interessanti collegamenti e riferimenti all'ubanistica e all'urbanizzazione non solo delle città comuni, ma anche delle megalopoli che potrebbero diventare se non lo sono già oggi delle città invivibili e di conseguenza invisibili, al punto da essere meta esclusiva di viaggiatori dispersi o che si ritrovano a passarci per arrivare a destinazione.

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