domenica 16 ottobre 2016

Sul referendum costituzionale



Carissimi lettori,
in questo post pubblicherò una presentazione dedicata al referendum costituzionale su cui si voterà il prossimo 4 dicembre. Si tratta di slides che presentano alcuni punti, mettendo in luce che cosa e come cambia, annotando anche alcune questioni aperte o problemi.
Esiste non poca disinformazione sul referendum, spesso trattato con leggerezza. La revisione costituzionale, invece, nel bene o nel male, incide su regole fondamentali dello Stato, intervenendo sull'organizzazione dei poteri e le funzioni degli organi costituzionali. Forse in maniera troppo approssimativa e senza affrontare nodi centrali.
La riforma cambia, infatti, molte regole fondamentali del funzionamento dello Stato, ma non incide su materie fondamentali, la cui riforma attende da un cinquantennio e che è lasciata alla buona volontà dei legislatori futuri: una riforma radicale della pubblica amministrazione, per esempio, uno statuto per i partiti e per la selezione della classe politica, una riforma e semplificazione della giustizia, spesso riformata "per pezzi" e in modo caotico e astruso per il cittadino comune.
Su altri punti, si interviene senza eliminare le cause, rischiando perciò di creare problemi (le competenze del Senato, il procedimento legislativo che si snoda in oltre sei procedure diverse, il Senato che ha potere di veto sulla Camera).
Senz'altro cambia molto, ma occorre valutare - ognuno per conto proprio - in che modo cambi: se in meglio o in peggio.
Non poche sono le perplessità che questa legge di revisione solleva: un Senato depotenziato, ma onnipresente; un bicameralismo che non viene superato e che crea potenziali conflitti fra Camera e Senato, da decidere davanti alla Corte costituzionale, con rischi di ricorsi e illegittimità delle leggi; un Senato che conserva diversi poteri, ma non è più eletto direttamente dai cittadini; una volontà di ridurre i tempi decisionali, affrontata però con strumenti inefficaci (che, secondo alcuni rilievi, rischiano di rallentare ulteriormente il sistema). Per esempio, ora una legge impiega in media 90 giorni per essere approvata (un tempo breve, al di là di quel che si pensa) ed esiste inoltre uno strumento per farle approvare subito (la c.d. fiducia); domani, il Senato potrà ritardare le leggi, la Camera non avrà invece un termine per approvarle e, al massimo, il Governo potrà chiederle di pronunciarsi entro 60 giorni, che si aggiungono ai vari ritardi provocati dal Senato (quindi: in totale non meno di 90-100 giorni per una legge).
Altri dubbi riguardano l'elezione del Presidente della Repubblica, eleggibile dalla maggioranza dei votanti e non più dei componenti, quindi, potenzialmente, dal solo partito di maggioranza. Ma non sfuggono le proposte di legge popolare, per le quali viene triplicato il numero di firme necessario e si assegna ai futuri regolamenti la loro discussione e approvazione da parte del Parlamento.
Ma queste sono considerazioni (estremamente brevi) a latere. Nelle slides che precedono sono invece riassunti dati, norme e punti essenziali, in base ai quali formarsi un'opinione (si spera informata): perché il voto migliore è quello espresso con coscienza di ciò su cui si sta votando!

S.R.

giovedì 4 agosto 2016

Partiti di massa e masse di partiti

Nell'Ottocento, dopo l'unità, la situazione politica dell'Italia era rappresentata da una serie di partiti di notabili, associazioni prevalentemente private, circoli di galantuomini, borghesi o aristocratici che si dedicavano all'arte del governo. Di vera e propria "arte" si può parlare, perché la gestione dello Stato era riservata, destinata a pochi ma, soprattutto, non si rivolgeva alle masse. La vita politica era poco diversa da un'attività ludica e raffinatissima riservata a pochi esponenti che, per l'appunto, rappresentavano l'élite al potere. Le masse, di fatto, non erano rappresentate: i politici di professione o i galantuomini prestati alla politica non erano diretta proiezione di gruppi o interessi sociali. Poco diversa era la situazione nel resto d'Europa: al di qua delle Alpi stavano i Cavour e i Giolitti, al di là i Bismarck e i lord o i grandi industriali al Governo.
Come insegnava anche il mio caro professore di Storia del liceo, quel che caratterizza il Novecento e lo distingue nettamente dalla politica dei notabili della Destra e Sinistra storiche fu invece l'avvento dei partiti di massa. Il Novecento ha cioè generato - attraverso le nuove istanze sociali, i movimenti e la progressiva affermazione del suffragio universale - un nuovo scenario politico fondato sulla rappresentanza e sulla rappresentatività. Prima ancora che nelle istituzioni, dove il processo fu più lungo e irto, i partiti politici smisero di essere quei circolo di galantuomini illustri - talvolta innegabilmente illuminati - e iniziarono a diventare associazioni rappresentative di ceti o di interessi. Ogni gruppo, ogni formazione di cittadini accomunata da istanze o bisogni condivisi cercava un referente in un partito politico; da parte sua, il partito si costituiva proprio perché rappresentava o tendeva a rappresentare quelle istanze o bisogni oppure perché mirava a rappresentare a livello politico e istituzionale un certo gruppo sociale. Contadini, operai, industriali, religiosi, ma anche capitale, lavoro, ecc. Poco importa che cosa o chi rappresentassero: il punto di svolta era il nuovo criterio fondativo di quei partiti.
Di conseguenza - o a causa di ciò - la partecipazione stessa alle nuove formazioni partitiche registrava un'affluenza enorme, di gran lunga superiore all'epoca ottocentesca dei partiti dei notabili, anche perché il diritto di voto veniva esteso e con esso aumentava la consapevolezza che la politica non fosse un'attività come la falconeria ma un terreno in cui si confrontano e decidono interessi sociali fondamentali. Cittadini e gruppi sociali partecipavano in massa alla vita politica sia perché era caduto il principio secondo il quale il Governo era un'arte o un privilegio d'élite; sia perché i partiti si candidavano a rappresentare interessi comuni e diffusi e, talvolta, veri e propri bisogni. Erano partiti di massa perché rappresentavano interessi di masse; ma erano partiti di massa anche perché le masse, vedendosi rappresentate, partecipavano con interesse alla determinazione della vita politica. "Di massa" in senso soggettivo, quindi, perché le masse li componevano o quantomeno vi si riconoscevano: ne erano cioè rappresentate. Ma anche in senso oggettivo e cioè rappresentativi delle esigenze e delle rivendicazioni dei ceti.
L'avvento dei partiti di massa ha concretizzato il principio di rappresentanza e di rappresentatività: da una parte, ha reso effettiva e ampia la partecipazione e il coinvolgimento, l'interesse delle masse alla vita politica in quanto terreno di discussione dei propri ideali e interessi; dall'altra, ha permesso, per mezzo del partito stesso, di dare spazio e forza agli interessi e ideali concreti della cittadinanza. Da una parte, quindi, maggiore partecipazione; dall'altra, avvicinamento della politica alla vita sociale. 
Il partito diventa strumento di partecipazione della società civile alle istituzioni, concetto che peraltro si rinviene nella Costituzione italiana del 1948. E lo diventa perché si fa interprete di istanze presenti nella popolazione; ma anche perché, di conseguenza, la popolazione si sente chiamata in causa e partecipa in massa, attraverso i partiti, alla res publica.
Ora, è evidente che ad oggi il nostro Paese attraversa una fase di profonda crisi della rappresentanza politica. E' evidente una forte disaffezione alla politica, una scarsa affluenza alle urne durante le consultazioni elettorali, bassissime percentuali di votanti e un forte allontanamento dai partiti. Troppo facile sarebbe affermare che, in casi come questi, chi non vota ha sempre torto perché lascia decidere agli altri. Bisognerebbe invece seriamente considerare le cause di questa disaffezione che sfocia nell'astensionismo e, quindi, nella mancata partecipazione alla vita politica. 
Ebbene, da quanto si può fin qui capire, la principale causa di questa crisi di rappresentanza dei partiti risiede proprio nella inidoneità o - se si vuole usare un termine "incolpante" - nella incapacità di quei partiti di rappresentare bisogni, interessi e ideali sociali. Partecipazione attiva dei cittadini (che concretamente significa voti e consensi) e rappresentatività di interessi e ideali sono due facce della stessa medaglia. Se la capacità di rappresentare queste istanze non esiste, se cioè i partiti non rispecchiano istanze e non incarnano gruppi sociali, quegli stessi gruppi si disinteresseranno inevitabilmente dei partiti e della politica. 
Il rischio che si corre, però, non è allo stato dei fatti un ritorno ai partiti di notabili, ma piuttosto un passaggio dai partiti di massa (fondati sulla rappresentanza nelle due direzioni) a masse di partiti. Il passaggio, cioè ad associazioni indistinte, spesso trasversali, che non rappresentano interessi effettivi o formazioni sociali e istanze specifiche, ma che nascono e si sviluppano in regime di totale indifferenza rispetto alla società civile e alle classi sociali: e all'indifferenza, non si può che reagire con altra indifferenza. Di gran lunga peggiore è poi la percezione e spesso l'oggettività che alla rappresentanza di bisogni e interessi dei gruppi sociali si sostituisca un unico interesse corporativo: quello alla conservazione del solo potere. 
Masse di partiti sono insomma accozzaglie indistinte e prive di identità politica che non perseguono ideali, progetti, interessi con cui le masse posso confrontarsi e in cui potrebbero rispecchiarsi. La perdita di identità e di chiari ideali o interessi da rappresentare è infatti il primo motivo della disaffezione. Di questo non si può accusare certamente la sola popolazione che diserta le urne, così come non si poteva accusare il popolo che - in quel caso per legge - veniva tenuto lontano dalla politica ai tempi dei notabili ottocenteschi. Ma se in quest'ultimo caso la politica era lontana dalle classi sociali perché era un'attività alta e altra che nel popolo cercava solo una legittimazione formale, ora siamo invece davanti a un divorzio in cui la parte offesa è proprio la società civile che non trova punti di compatibilità. Non si può in questa circostanza risolvere la questione con un'accusa secca all'astensionismo se non si comprendono le ragioni del "coniuge offeso". Sono le masse ad allontanarsi dalla politica, perché la politica non riesce più a rappresentare i loro compositi interessi. Questa forma di alienazione dei partiti dalla vita sociale conduce inevitabilmente a una frattura di cui non si può incolpare la maggior parte degli elettori che, pur godendo della massima libertà, non possono che scegliere fra le offerte presenti sul mercato politico oppure non scegliere. Sempre maggiore è l'avvicendamento di formazioni politiche minori, transfughi, malaffare che induce poi la popolazione a diffidare della politica e a lasciare la scelta nelle mani dei pochi elettori superstiti. Il risultato è evidente a tutti: basterebbe cambiare rotta, se lo si vuole.

lunedì 25 aprile 2016

Il diritto di resistenza

La storia del diritto di resistere al potere illegittimo coincide con quella della democrazia. Il suo contenuto, il valore, la sua portata sono variati nel corso del tempo, richiamando ora il diritto naturale, ora quello divino, fino a confondersi nelle Costituzioni moderne con le più fondamentali libertà della persona.
Non è un segreto che la Costituzione italiana, così come molte costituzioni del dopoguerra o nate all'indomani di regimi autoritari, sia una costituzione partigiana. Dalla Resistenza al nazifascismo è nato il sistema delle libertà fondamentali attualmente in vigore e con la Resistenza si è affermata l'idea di diritti individuali e universali.
Non è un mistero che gli stessi padri costituenti, molti dei quali avevano in prima persona combattuto la guerra contro l'oppressione fascista, vollero escludere il rischio che all'indomani della liberazione si ripetesse l'esperienza liberticida. Meno noto è che quando discussero uno degli architravi del nuovo sistema, quello che prevede la partecipazione dello Stato alla vita internazionale, si interrogarono su quali regole e diritti della Comunità internazionale dovessero avere il primato, una forza addirittura superiore alle leggi nazionali (per i lavori preparatori all'art. 10 Cost., si vedano le diverse raccolte di Atti della Costituente). Memori della Resistenza, gran parte dei deputati intuì la necessità di riconoscere come inalienabile il diritto dei popoli oppressi a ribellarsi ai governi oppressori. E così, in linea con una parte della Comunità internazionale, ogni potere che vessasse il proprio popolo veniva in sostanza a configurarsi come illegittimo e ciascun popolo, specularmente, legittimato a rovesciarlo.
Il principio non fu formalizzato in maniera esplicita, ma sicuramente contribuì a sollevare una questione di prim'ordine: l'oppressione, l'eccesso di potere, l'uso distorto della forza diventavano la misura insuperabile, la scintilla che aziona un vero e proprio diritto: quello di resistere.
In questa forma però il diritto di resistenza - forse non citato ma sicuramente presupposto dalla Costituzione italiana del '48 - non si esaurisce nel passato, ma continua a valere o quanto meno a sfidare per il futuro e resta sempre attuale. Col XXV Aprile 1945 allora si celebrano non soli i fatti storici della liberazione da una dittatura totalitaria e disumana, ma anche il diritto dei popoli, costituiti da gruppi sociali e da individui con altrettanti incomprimibili diritti, a opporsi alle ancora numerose angherie e violazioni dei diritti basilari.
La lotta alla "tirannide" è stata sin dall'antichità il metro per riconoscere e rendere effettive le più basilari esigenze dell'uomo che il potere negava. Da Antigone, che coraggiosamente sfidava il divieto disumano di seppellire il fratello trucidato, a Locke che nel '600 rivendicava il diritto di resistere e ribellarsi al potere illegittimo che violava il patto coi suoi cittadini. Proprio con Locke il diritto di resistenza diventa uno dei paradigmi della libertà: i cittadini, non più sudditi, sono parte di quel patto con lo Stato, un patto di protezione che essi si sono impegnati a rispettare per il vantaggio che ne deriva ma che, al contempo, obbliga lo Stato a rispettarlo, comportandosi da buon padre di famiglia. Non è più ammesso allo stato liberale e ora democratico di violare quei principii.
Se questo è pacifico, resta da chiedersi però quando un potere diventi illegittimo: quando cioè violi quelle regole fondamentali del gioco che ne sanciscono l'espulsione e la sconfitta.
La memoria scorre diretta al buon Socrate. Secondo il racconto di Platone (nel Critone), la forza d'animo e l'integrità del maestro avevano spinto l'Ateniese ad accettare la pena di morte inflittagli dalla comunità. Una pena ingiusta ma, per Socrate, doverosa a cui perciò non avrebbe voluto sottrarsi. Cosa concludere dunque? Violare la legge è un disvalore maggiore rispetto alla resistenza a una decisione ingiusta?
A mio avviso la verità deve cercarsi nel mezzo. Tralasciando l'eroismo di Socrate che non è qualità da doversi pretendere, anzitutto legalità e resistenza sono valori che possono venire in conflitto. Non è questa la sede per spiegare che diritto e morale possano (e debbano) procedere su vie distinte; ma è questo il caso di comprendere quando moralmente e politicamente questo diritto di resistere sia preminente rispetto all'osservanza della legge. 
Muoviamo dal presupposto che la disobbedienza a un regime totalitario è la precondizione per violarne le leggi. D'altra parte, gli stessi gerarchi nazisti si difendevano durante il processo di Norimberga invocando l'ubbidienza a ordini superiori. E ciononostante la banalità di questa giustificazione non reggerebbe ad alcun giudizio di buon senso. Si coglie invece che proprio l'enormità e la gravità delle violazioni di quel regime giustificava una reazione al di fuori del sistema delle leggi
Durante la Resistenza al fascismo, gli stessi partigiani italiani erano, secondo il sistema vigente, fuorilegge. Formalmente - come scrive Fenoglio ne Il partigiano Johnny - nulla distingueva un partigiano da un bandito se non - si aggiunge nel romanzo - la sua ideologia. Ora, fuor di metafora, l'ideologia della Resistenza era proprio la libertà. Ma non una libertà astratta e dai confini indistinti, non una libertà-concetto: ma una libertà concreta, tangibile,che si manifestava in ogni forma di vita quotidiana, anche la più semplice. Libertà nel '45 significava sgomberare dai proiettili, dalle bombe, dai gas le strade, le scuole, le fabbriche, le case dei borghi occupati, delle città decimate, liberare la scansione delle giornate dal ritmo dei mitragliatori contro i corpi dei condannati sommariamente a morte, dalle fucilazioni, dal confino, dalla tortura, dalle rappresaglie; libertà nel '45 significava fermare i carri merce pieni di carne umana che in partenza per il massacro verso il fronte; libertà nel '45 significava fermare i vagoni ferrati ricolmi di uomini ammassati come bestiame, compagni di scuola, colleghi di lavoro, volti noti destinati alle deportazioni, ai lavori forzarti, allo sterminio razziale; significava recuperare quella dignità umana calpestata in ogni singolo aspetto della vita pubblica e privata, voleva dire non dover più chiedere allo Stato un'autorizzazione per sposarsi con chiunque e non doversi difendere da persecuzioni in base alla nascita, agli ambienti frequentati, alle opinioni espresse; libertà nel '45 voleva dire coltivare l'ideale di una Comunità nuova, in cui gli affetti non fossero sistematicamente sottoposti al placet dell'autorità; significava desiderare elezioni libere e realizzare un sistema di codecisione di un progetto comune.
Quel che significa oggi il diritto di resistenza, quindi, è a mio avviso insito nella finalità (la c.d. "ideologia") e nelle condizioni oggettive, intollerabili, in cui molti popoli e uomini versano.
Perciò è chiaro: rivendicare quel diritto non significa istigare alla violenza, ma vuol dire non trincerarsi dietro la banale rassicurazione dell'omertà o del conformismo. Resistere non è sinonimo di agire contro la legge, ma capacità e autonomia di discernere quando la disobbedienza è il più fondamentale dei diritti. Questo, purtroppo, bene può essere compreso dai popoli e le persone che di quelle libertà innegabili sono private: persone per le quali avere un'istruzione, frequentare luoghi pubblici, esprimere il proprio pensiero o avere una vita privata è tuttora impossibile. 
Questo 25 aprile è dedicato a loro.


giovedì 14 gennaio 2016

...è nato!

Da qualche giorno potete trovare su questo link il nuovo blog dedicato interamente alla poesia:



Buona lettura e a presto con nuovi articoli e interventi su temi di attualità e non solo, qui su figlidiodisseo.