giovedì 31 ottobre 2013

Enjambement


Ricordi le pietre su letto di ghiaia
del fiume dormire coi piccoli al seguito
figli senza sole e luna d'un'immagine
distorta del cielo
e dell'amore e del tepore e del fetore
e del colore solo
una pellicola davanti agli occhi-
non occhi...?

Vorrei non esistesse un tempo
per aggrovigliarsi,
uno per slegarsi,
che il tempo non fosse una sequenza
amorfa di attimi.
Io sento il tempo per nascere
e il tempo della narcosi.

Io sono
anestetizzato,
scagliato
contro
la calotta
concava
della sera.
E penso.

Penso al rimeggiare gentile
sopra il sospirare sottile
dell'eterno mese prima d'aprile:
i tuberi, le radici secche,
la cantilena stagionale
aspettare:
pomice galleggiare
e non capire
e continuare

Simone Risoli
(31 ottobre 2013)


giovedì 24 ottobre 2013

Spoon River: la vera e la finta corruzione (II)

(Ripubblicazione dell'articolo di agosto 2012)


Hod Putt

Mr. Putt osserva con noncuranza il vecchio capitalista Piersol, losco uomo d'affari, industriale arricchitosi con la frode e sfruttando a proprio vantaggio le leggi che gli amici potenti gli hanno approvato per salvarlo dal fallimento. Ma al mancato fallimento finanziario del'uomo, l'indifferenza di Putt si trasforma in indignazione e l'indignazione in disperazione, al punto che lui, uomo onesto e buon padre di famiglia, per fame, rapina un passante indifeso e, senza volerlo, lo uccide. Allo scandalo d'un uomo che uccide un altro uomo, Spoon River non può che reagire con la forza della Giustizia e della pena capitale. Davanti alla morte, però, il fallimento supremo, né il ricco parassita né il disperato sfuggono.


Qui giaccio, accanto alla tomba
del vecchio Bill Piersol,
che si arricchì trafficando con gli Indiani e che
poi, con la legge sul fallimento,
si arricchì più di prima.
Io m'ero stancato di fatica e miseria,
e vedendo come il vecchio Bill e gli altri prosperavano nel benessere,
una notte rapinai un passante dalle pari di Proctor's Grove,
 ma senza volerlo lo uccisi,
perciò fui processato e impiccato.
Fu il mio modo di fare fallimento.
Ora, noi che siamo falliti ciascuno a modo suo
riposiamo in pace fianco a fianco.


Ralph Rhodes

Il giovane Ralph Rhodes deve la sua fortuna agli imbrogli, ai prestiti bancari ricevuti con l'inganno, alla bancarotta del padre, ai raggiri e ai finanziamenti illeciti, alla truffa. E dopo aver frodato Spoon River, fatto fallire il padre, gestito i suoi affari in maniera occulta, fatto incarcerare il suo cassiere fantoccio per i reati che egli aveva commesso, dopo essersi lasciato ammaliare al fascino del denaro, Rhodes non resiste a quello delle donne e del vino, fino al disgusto. La sua consideratezza non riguarda la morale personale, ma è il suo modo di sbeffeggiare la vita e la società. 
Fino al disgusto, appunto, perché avvicinandosi la morte, quando anzi la morte lo richiama quasi fatalmente a Spoon River, Rhodes non è pentito, né insoddisfatto, ma sente per la prima volta di essere ingannato: ingannato dal suo cuore che si ferma.


Tutto quel che dicevano era vero:
feci fallire la banca di mio padre coi prestiti ottenuti
per speculare sul grano a tempo perso; ma questa è la verità:
compravo grano anche per lui
che non poteva figurare nell'affare
per via dei suoi rapporti con la chiesa.
E mentre George Reece, il cassiere, scontava la pena,
io inseguii il fuoco fatuo delle donne
e l'inganno del vino a New York.
E' fatale disgustarsi del vino e delle donne
quando non hai nient'altro nella vita.
Ma immaginate la vostra testa grigia, e china
su un tavolo cosparso di mozziconi acri
di sigarette e bicchieri vuoti,
e si sente un colpo, e voi sapete che è il colpo
così a lungo soffocato dallo scoppio dei tappi
e dalle strida fatue delle donnine-
voi alzate lo sguardo, ed ecco la vostra ladra,
lei che ha atteso che aveste la testa grigia
e il cuore perdesse colpi per dirvi:
il gioco è finito. Sono venuta a prenderti.
Vai sulla Broadway e fatti investire,
ti rispediranno a Spoon River.


Il direttore Whedon


Whedon, direttore, non ha nome. Dal retroscena del suo quotidiano Whedon spadroneggia sulla Città dei vivi. Lui è il gigante, il profeta; le passioni umane la sua materia bruta da deformare e usare per rovinare Spoon River, nel proprio superiore interesse: lui è il gigante. Minare la civiltà come un ossesso del potere, un ragazzo che fa deragliare un treno per il gusto di provare la propria onnipotenza; tutto gli è dovuto. Tutto meno un posto dignitoso in cui riposare, perché il cumulo delle sue ossa è gettato nel punto più penoso del cimitero, vicino al fetore di fogna che si alza dal fiume, il suo luogo naturale.


Saper vedere ogni aspetto d'ogni problema,
dar ragione a tutti, essere tutto, non essere nulla a lungo;
deformare la verità, strumentalizzarla,
sfruttare i grandi sentimenti e le passioni della famiglia umana
per bassi scopi, per fini astuti,
indossare una maschera come gli attori greci -
il tuo quotidiano di otto pagine dietro cui ti nascondi,
strillando nel megafono dei caratteri cubitali:
"Sono io il gigante".
E quindi vivere anche la vita di un ladruncolo,
avvelenato dalle parole anonime
di un' amica segreta.
Per danaro insabbiare uno scandalo
o divulgarlo ai quattro venti per vendetta,
o per vendere il giornale,
distruggendo reputazioni o corpi, se necessario,
vincere a ogni costo, salvo la vita.
Gloriarsi di un potere demoniaco, minare la civiltà,
come un ragazzo paranoico mette un tronco sulle rotaie
e fa deragliare il rapido.
Essere un direttore, com'ero io.
Poi giacere qui accanto al fiume sopra il punto
dove scorre la fogna del villaggio,
e scaricano barattoli vuoti e immondizie,
e nascondono gli aborti.

mercoledì 23 ottobre 2013

C'era una volta lo Statuto Albertino. Il 138 e l'assedio alla Costituzione


C'era una volta lo Statuto Albertino del 1848.
Vennero, poi, il Fascismo, le leggi razziali, la guerra mondiale e quella civile: ma venne il tempo della Costituzione del 1948 e delle riforme, sorte dal sangue e dall'impeto di liberazione della Resistenza... fino a che, il Senato, oggi, ha approvato, silenziosamente, il disegno di legge di modifica dell'art. 138 della Costituzione, permettendo alla commissione dei c.d. "Saggi" di cambiare la seconda parte della Carta con estrema facilità.
Nello Statuto non si rinveniva una norma analoga all'art. 138; non era scritto da nessuna parte, insomma, che per modificare lo Statuto stesso fossero necessari procedure complesse, tempi determinati, doppio passaggio alla Camera e al Senato, un'eventuale approvazione “popolare” tramite referendum.
Con riferimento al periodo storico della sua genesi, non si trattava di una “cattiva” costituzione. Garantiva alcuni diritti fondamentali (per lo più di libertà e legati alla proprietà privata), assicurava lo Stato di diritto, limitando l'ingerenza dei poteri pubblici nelle libertà individuali; e lo faceva in tono solenne. Ma presentava due limiti insuperabili: una Costituzione concessa con atto di liberalità dal Sovrano, che con essa intendeva autolimitare un potere proprio e naturale, è pur sempre calata dall'alto motu misericordiae, revocabile in ogni momento; ma, soprattutto, lo Statuto era nelle mani del Parlamento, il quale poteva disporne arbitrariamente. La Legge permette, la legge vieta; la Legge concede diritti, la Legge li nega. In altre parole, lo Statuto Albertino era una costituzione fragile e flessibile, un gigante dai piedi d'argilla.
E, così, la maggioranza parlamentare che avesse voluto comprimere i diritti civili e politici di una certa minoranza, avrebbe potuto agire impunemente; il Parlamento che avesse voluto approvare leggi liberticide e “fascistissime”, che avesse voluto costituzionalizzare un'organizzazione fortemente gerarchizzata e anti-egualitaria dello Stato, avrebbe trovato la strada spianata. Chi avrebbe custodito i custodi? E, d'altra parte, che senso avrebbe avuto porsi il problema dei limiti del legislatore? In fondo, il legislatore era il fautore della legge e, cioè, il fautore del diritto e dei diritti. Nulla di anomalo se il legislatore avesse ordinato la deportazione e il confino per Ebrei, omosessuali e dissidenti: chi fabbrica il gioco, ne decide le regole e a tali regole bisogna attenersi.
Nello Statuto non si rinveniva alcuna norma analoga all'art. 138, nessun limite nelle forme e nei modi a cui si sarebbe dovuto attenere il Parlamento per modificare la Legge fondamentale.
L'esperienza di due conflitti mondiali e dei totalitarismi ha suggerito che un tale sviamento del diritto è inaccettabile. Le costituzioni liberali, le c.d. Costituzioni “flessibili”, si sono rivelate fallimentari.
I Costituenti del '48 avevano vissuto la frode del Fascismo che proprio per via parlamentare aveva, in piena regola, introdotto la censura, e che “democraticamente” si era voluto legittimare ottenendo consensi, previa l'eliminazione, per via legale (e non solo), degli oppositori. Le leggi razziali erano leggi.
La Costituzione Italiana del '48, come tutte le moderne costituzioni “rigide”, ha abbandonato il paradigma della assoluta disponibilità degli individui da parte dello Stato, anche (e soprattutto) attraverso l'azione all'interno delle regole del gioco, ovvero la possibilità che ai più alti livelli del potere (chi approva le leggi) siano tangibili alcuni «valori».
Per ottenere questo risultato le costituzioni moderne in quanto rigide si avvalgono, in genere, di due meccanismi: 1) riconoscere alle Costituzioni stesse un rango superiore alla legge ordinaria, cosicché ogni legge in contrasto con esse è illegittima (e dunque nulla); 2) prevedere dei procedimenti “aggravati” per la revisione costituzionale, ovvero procedure complesse e delicate di modifica, cosicché i principi costituzionali non siano alterati con semplicità.
I due punti sono strettamente connessi. Infatti, se fosse consentito al legislatore di modificare con legge ordinaria la Costituzione, essa non potrebbe imporsi sulla legge stessa al punto da determinarne l'illegittimità, ma ne sarebbe semplicemente superata. A chiusura del sistema costituzionale moderno, tutte le costituzioni rigide contemplano una forma di controllo o sindacato sulla legittimità, ovvero sulla conformità delle leggi al loro contenuto prescrittivo; funzione che la Costituzione del '48 attribuisce alla Corte Costituzionale.
L'art. 138 della Costituzione italiana introduce proprio quel limite procedurale alla revisione: un criterio che non è assoluto, unico e immodificabile, ma che deve garantire che qualunque maggioranza contingente non stravolga i principi costituzionali, avendone il potere. Se così fosse, si regredirebbe allo Statuto Albertino.
È evidente infatti che, facendo venir meno uno di questi pilastri, il sistema costituzionale precipita. E con esso la serie di contenuti, diritti inalienabili, garanzie che riconosce. Perché, di per sé, non è innovativa la solennità con cui il diritto alla libertà di pensiero o alla libertà personale o di riunione sono sanciti dalla Costituzione; se essi sono arbitrariamente e senza limiti soggetti alla volontà del Parlamento, restano insignificante lettera morta.
Ora, le regole procedurali non sono formalismi, ma assolvono proprio a quella funzione di garanzia, protezione, invito alla riflessione su materie delicate. Senza l'art. 138 l'enunciato “Tizio non può subire alcun esproprio ingiustificato” equivale in tutto all'affermazione “Oggi mi sono svegliato felice”: incerta, inefficace, vuota.
E se il Senato, attraverso la regola sulle modifiche della Costituzione, modifica la regola per la revisione costituzionale? Al di là del vizio logico della regola che consente di modificare se stessa (quello che accadeva con lo Statuto, ma che i Costituenti del '48 hanno voluto evitare lasciando l'ultima parola alla Consulta), la questione è di estrema concretezza. Se l'attuale legislatura, in maniera legittima, cioè conformemente alla procedura, modifica la regola che fissa proprio quella procedura, questo non è necessariamente un male in re ipsa. Perché, ad es., la regola potrebbe essere modificata nel senso di essere resa più rigida, prevedendo maggioranze più ampie (attualmente è richiesta la maggioranza dei due terzi o la maggioranza assoluta con eventuale referendum confermativo). Oppure potrebbe prevedere meccanismi alternativi di revisione, ad es. abbassando le maggioranze ma introducendo la consultazione referendaria necessaria; e così via. Ma è insufficiente l'affermazione che il 138 sarà solo parzialmente rivisto per consentire alcune riforme necessarie al Paese, perché la sua ratio è proprio precauzionale e modificarne il senso profondo significa aprire a un indebolimento delle garanzie costituzionali.
Tuttavia, se l'attuale legislatura (in particolare, il Senato) approva, come è avvenuto oggi, uno stravolgimento dell'art. 138 nel senso che una commissione di circa 40 parlamentari ha il potere di modificare la Costituzione, la rigidità della stessa viene meno. Ma, ancor più gravemente, con essa viene meno il sistema di garanzia dei diritti. Chi impedirà ai nostalgici dello Statuto Albertino di apportare modifiche significative e non propriamente democratiche alla Costituzione? In questo modo, si permette con assoluta facilità a una parte del Parlamento di disporre della Legge fondamentale.
Non intendo essere tacciato di “complottismo”, “retro-storicismo” o “grillismo”: intendo solo riportare una considerazione di fatto e non una tesi fanatica e acritica. Uno studente al primo anno di giurisprudenza sa che l'articolo 138 Cost. è l'architrave del costituzionalismo. Spetterà forse alla Corte Costituzionale sopperire per l'ennesima volta all'aberrazione del Parlamento?
A questo punto, è chiaro che formalmente l'art. 138 non è stato eliminato dalla nostra Costituzione, ma, se la modifica sarà approvata anche alla Camera dei Deputati (senza, peraltro, possibilità di ricorrere a referendum), la norma sarà sostanzialmente svuotata di significato, e la Costituzione e il suo seguito di libertà fondamentali fortemente compromesse.
Se questo rientri o meno nel disegno della grande maggioranza politica, è secondario; ma è politica la responsabilità dell'aver destabilizzato la Costituzione.