giovedì 26 luglio 2012

APPELLO AI LETTORI


Il sonno della ragione genera mostri, Francisco Goya
Di certo non avrei voluto intervenire in questo modo, interrompendo momentaneamente anche la regolare pubblicazione. 
Tuttavia, confido grandemente nella libertà critica e di pensiero di ciascun lettore che si imbatta in questo luogo.
In breve, da qualche giorno qualcuno potrebbe aver notato inserti pubblicitari in nessun modo autorizzati oscurare o comparire in apertura del sito. Poiché si tratta palesemente di un'intrusione forzata, fondata sulla logica per la quale in ogni caso l'interesse di mercato è preminente, il fatto diviene questione di principio che come tale deve essere affrontata. E poiché il solo modo civile di affrontare la prepotenza e la forza è la conoscenza, chiedo a ciascuno, conosciuta la situazione, di trarre le proprie conclusioni, di ignorare gli avvisi o di prendere posizione contro il prodotto e la forma di pubblicità. 
Quanto alle mie, ritengo che la cultura non sia strumento per garantire profitti ad alcuno attraverso tecniche che si qualificano in tutto come "artifizi e raggiri"; credo che sia un'offesa all'intelligenza del lettore subordinare il suo interesse personale e culturale al suo presunto desiderio di consumo; credo che l'usanza, purtroppo diffusissima, di approfittare di qualunque occasione per promuovere insistentemente e con sotterfugi prodotti commerciali sia ormai da considerarsi, senza eccezioni, il tentativo di ridurre liberi individui autonomamente pensanti in sudditi apatici asserviti a una prassi conveniente.
Spero che i miei venticinque lettori comprenderanno le mie ragioni.

sabato 21 luglio 2012

"Il poeta è un fingitore" ovvero la comunicabilità della poesia e dell'uomo


Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.

(Autopsicografia, F.Pessoa)

Dal verso il poeta è un fingitore si origina un'ampia riflessione sulla creatura poeta anche nella sua natura di essere appartenente al genere umano.
Si tratta, per di più, di una questione centrale che trascende i confini della poesia.
La complessità del tema si può ridurre a uno schema: 
-Presupposto: almeno il poeta conosce se stesso quando scrive: finge consapevolmente.
-il poeta può condividere una parte di se stesso attraverso la poesia?
-il lettore può comprendere il poeta (il dolore del poeta)?
In altre parole, beninteso che proprio la tesi assunta come presupposto (il poeta conosce se stesso) è la più problematica, la poesia possiede una sua peculiare comunicabilità o il problema della poesia si riduce alla sostanziale incomunicabilità del dolore (e di ogni altra "sensazione" anche razionalmente inspiegabile) umano?
Se così può essere impostato il discorso, Pessoa propende esplicitamente per la seconda tesi: fra il poeta-uomo e i lettori-altri esiste una frattura profonda.
Tuttavia, questa cesura ha una duplice origine, dal momento che il poeta dispone del migliore strumento in suo possesso per comunicare la propria sofferenza, senza riuscire nell'intento: l'evocazione, il suggerimento, un uso deformato e personalizzato della logica, la grande allegoria del "correlativo oggettivo" sono finzione con cui il poeta non può altro che comunicare un'immagine o una falsa rappresentazione di sé; del pari, il lettore, si trova "tre gradi lontano dal vero": non può conoscere la sofferenza reale del poeta, può, al massimo, approcciarsi alla "finzione del dolore" che il poeta gli offre; ma nemmeno questa riesce a comprendere. Infatti, «quanti leggono ciò che scrive / nel dolore letto sentono proprio / non i due che egli ha provato / ma solo quello che essi non hanno».
Qual è la ragione di questa distanza? Procedendo per ipotesi, sembra che il solo modo per conoscere il dolore sia la condivisione, o meglio, la partecipazione. La forma più pura di partecipazione al dolore (che permette comunicabilità e comprensione) è l'eliminazione della differenza fra la sofferenza propria e altrui
Così Schopenhauer: 
Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa (Il mondo come volontà e rappresentazione).

Se solo la compassione permette di comunicare il dolore del poeta e dell'uomo, sorge spontaneo domandarsi: è possibile una sofferenza universale reale che non sia soltanto adesione esteriore?
Se il poeta è fingitore (e finge così completamente), se nel dolore letto gli altri sentono quello che essi non hanno, riducendo il dolore estraneo a un elemento che giace al di fuori della propria percezione e ricade, al più, nei loro discorsi sentimentali come motivo di orgoglio, è vera la sostanziale incomunicabilità del poeta anche attraverso la poesia. Il dolore rimane per natura un sentimento individuale che poesia e poeta, consapevole fingitore, si illudono di comunicare; sola conseguenza positiva è l'effetto consolatorio che da questa finzione o illusione si può trarre (cfr. Leopardi), ma è ineliminabile che «per tutti il dolore degli altri / è dolore a metà» (Disamistade, F. De André).A una tale conclusione provvisoria si può tanto pessimisticamente quanto realisticamente approdare. Per recuperare il nesso iniziale, alla base di una parte della incomunicabilità della poesia è forse l'indeterminatezza di cosa significhi e in che modo possa avvenire la comunicazione dell'uomo, la quale pare descritta, secondo Pessoa, da un meccanismo che si sottrae alla ragione («sui binari in tondo / gira, illudendo la ragione, / questo trenino a molla / che si chiama cuore»).
D'altra parte, bisogna analiticamente ammettere che la poesia sia tentativo di rendere comunicabile quanto è incomunicabile di natura, solo se si accetta il senso più profondo e esistenzialista della "comunicabilità fra coscienze". Più sinteticamente, forse il difetto non è nella poesia, ma nella natura - rectius nelle scelte che determinano la natura - umana.

martedì 17 luglio 2012

A cosa serve la poesia?

(passi dall'intervento al liceo "Machiavelli", aprile 2012)

Scriveva un insigne storico dell'architettura che occuparsi dell'arte dei Greci pone lo studioso in una situazione di grande difficoltà: poter indagare quei remoti abitanti dell'Attica lucidamente, sine ira et studio, criticamente, senza essere coinvolti in prima persona per il debito culturale che si conserva nei loro confronti. La difficoltà insita in questa operazione è il rischio di creare confusione, rivolgendosi a chi ascolta con la presunzione o la certezza che ciascuno partecipi pienamente all'argomento. Trasmettere e percepire la poesia è un'operazione logorante che impegna l'interezza di sé: la poesia si scrive e si legge con l'interezza della persona e del corpo (così anche Pasolini).
Fuor di metafora, per quanto affascinante sia occuparsi di poesia, proprio questo è il principale limite alla sua spiegazione. Qualcuno si è mai chiesto perché la poesia o l'arte, generalmente, si comunicano e non si spiegano? Questo non significa che nella poesia non esista nulla di razionale: la storia della letteratura contraddice la certezza di una natura puramente intuitiva dell'arte. Si pensi a Leopardi (La ginestra) e a Eliot. Quest'ultimo fu accusato da un poeta suo contemporaneo di essere un freddo, arido, servile «stupratore di Dante e galoppino di Hegel».
D'altra parte, la poesia non è nemmeno, a dispetto dell'etimologia, attività tecnica: è difficile indicarne le "fasi di produzione" e, ad ogni interpretazione, ciascuna fase non viene soltanto ricostruita, ma spesso integrata e creata ex novo. Proprio questo è il primo motivo, a mio avviso, dell'utilità poetica attuale. Il primo modo per essere “compromessi” con la poesia è la lettura. Leggere e interpretare significa vivificare: questo approccio alla poesia permette una sua riscrittura “utile” all'individuo (e alla società degli individui). Borges lo riassumeva simbolicamente in un personaggio che, intento a tradurre il Don Chisciotte di alcuni secoli prima, vi riconosceva i fatti presenti, al punto da iniziare a riscriverne la storia, plasmandola sugli avvenimenti attuali.
È fondamentale una premessa, a mio avviso. Trattare di “utilità” della poesia è un modo volutamente provocatorio per rivolgersi a chi sostiene che l'essenza della letteratura sia proprio l'assenza di una finalità. Affermare che la poesia sia “utile” non significa assegnarle un valore economico, ma riconoscerle un ruolo individuale, psicologico, sociale, universale, esistenziale; significa non relegarla nell'anonimato, nelle attività di evasione, ma riconoscerle un ruolo indispensabile. Significa quantomeno discutere se e in che modo la poesia possa contribuire alla umanità o, come scriveva Mario Luzi, alla salvezza dell'uomo.
(...)

Esiste una definizione di poesia?
Il termine “poesia” assorbe una serie di concetti: questo è il nucleo del problema. Definire il termine, significa trovare soluzione a ogni contrasto intorno alla poesia.
Ma definire che cosa sia "poesia" è, allo stesso tempo, il risultato finale della ricerca, come scegliere un'unità di misura presuppone che quel che si vuole studiare è misurabile.
Su un significato convenzionale-provvisorio bisogna, però, accordarsi per procedere a un'analisi successiva.
Nell'immaginario comune vale l'equazione (spesso criticata, cfr. Sanguineti) poesia = andare a capo a fine verso. Vorrei proporne invece un'accezione più ampia in cui "poetica" sia sinonimo, in senso lato, di "concezione dell'esistenza": ogni uomo è poeta (come afferma Gramsci) nella misura in cui «non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens»e, cioè, ogni uomo è «un filosofo, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale».

(...) In definitiva, non credo che la poesia debba essere inutile per potersi considerare degna, né penso che la poesia “utile” sia “nociva” (...).
Credo, però, che la poesia “utile” – non in senso economico-utilitaristico, ma nel senso di elemento per la conoscenza e strumento propositivo in ambito sociale – oltre a non essere nociva, sia “benefica”. Conoscendo persone estranee alla poesia, percepisco l'incompatibilità, la mancanza di tentativo, di avvicinamento dettato dalla domanda: A che serve?
È vero che l'avvicinamento è reciproco. Non si può negare l'essenza della poesia per renderla un prodotto ambìto e commerciale: sarebbe celebrarne il funerale nel peggiore dei modi.
Ciò che intendo dire è altro: se nella poesia il poeta riesce a riscoprire la sua completezza di uomo come individuo, come animale sociale, come essere gettato nell'universo, potrà aggiungere alla sua passione una aspettativa (politica?) di cambiamento, un tentativo di riforma culturale, un approccio nuovo alla realtà.
Con ciò la poesia non si corrompe ma, a mio avviso, si vivifica. Rendendola utile in questo senso, non la si sta piegando a esigenze esterne (il mercato), ma le si conferisce una funzione totalizzante. Si arriva, pertanto, a una conclusione provvisoria. Se non è possibile una definizione risolutiva del termine “poesia” sul piano critico, è ammissibile una conclusione provvisoria personale. Si potrebbe affermare: la ragione, in quanto empirica, ammette conclusioni che la ragione stessa, in quanto universale, deve cautamente escludere.
La poesia è una scelta di vita. Una scelta lato sensu.
Come le scelte può essere anche irrazionale: “c'è chi ama calcare con le ruote ardenti del carro la meta... chi solcare gli oceani... chi arare i suoi campi a condizioni attaliche... ma basta includermi nella cerchia dei poeti e sfiorerò col capo leggero gli astri” (scrive, più o meno, Orazio). Tuttavia, si può tentare comunque una spiegazione razionale della scelta: la razionalità, in misura diversa nelle persone, è una delle componenti fondamentali della scelta.
Nel romanzo di uno dei miei autori preferiti, Thomas Mann, il protagonista Serenus Zeitblom racconta un episodio della sua infanzia che lo aveva affascinato: nella sua casa di campagna aveva osservato il padre del suo fraterno amico immergere un cristallo in una soluzione salina e, estraendolo, vederlo accrescersi. Nelle pagine che seguono il protagonista racconta che da allora si sarebbe edicato alla letteratura.
L'accostamento può sembrare sconnesso con ciò di cui stavo parlando. Il nesso, invece, è questo: in quella reazione chimica perfettamente spiegabile, fase per fase, il protagonista, in tenera età, non coglie i particolari scientifici, ma si abbandona al richiamo quasi mistico di quell'esperienza.
Dedicarsi alla letteratura (e alla poesia) è in parte simile. Non penso che significhi abbandonarsi a fantasticherie senza senso (la mia formazione rigidamente razionale lo escluderebbe categoricamente), ma, invece, cercare soluzioni sempre provvisorie laddove non se ne conoscono. Davanti alla realtà il poeta moderno deve essere consapevole che nei fatti che osserva sta scorrendogli davanti "la verità" (quella scientifica, quella logica...). La sua opera non è cogliere quella verità nella natura, ma nemmeno creare la natura. È intuire e sviluppare una consapevolezza nuova, con la coscienza del limite della sua intuizione. "Da ragazzo te ne stavi lunghe ore / sulla riva del torbido Spoon / a fissare la tana del gambero [...] / e ti domandavi rapito nel pensiero / cosa sapesse, cosa desiderasse e perché mai vivesse" ("Theodore il poeta", E.L.Masters).
La poesia è una maggiore consapevolezza.
Appropriarsi della poesia (anche con la lettura) è riappropriarsi del linguaggio (e con questo del ragionamento) e del linguaggio poetico (e con questo della flessibilità mentale).

Simone Risoli, A cosa serve la poesia? )

giovedì 12 luglio 2012

Epigrammi, XI


11
ai compagni Cortoniani
Forse ricordi le notti insonni,
il cieco idealismo,
i frantumi del mondo
riordinati uno a uno.
La sera, ricordo, scendeva nell’acqua la luce
e s’immergeva nella palafitta
di alberi il sole,
quando era scherzo o discorso da dotti
parlare di morte.

Quando abbiamo deciso di diventare altro da noi?
Non era annebbiato il futuro di logica immatura.
Non era una corsa sui vetri.

20 gennaio 2011

Simone Risoli, Epigrammi

domenica 8 luglio 2012

Canzone per l'estate



Con tua moglie che lavava i piatti in cucina e non capiva ,
con tua figlia che provava il suo vestito nuovo e sorrideva,
con la radio che ronzava
per il mondo cose strane
e il respiro del tuo cane che dormiva.

Coi tuoi santi sempre pronti a benedire i tuoi sforzi per il pane,
con il tuo bambino biondo a cui hai dato una pistola per Natale,
che sembra vera,
con il letto in cui tua moglie
non ti ha mai saputo dare
e gli occhiali che tra un po' dovrai cambiare.

Com'è che non riesci più a volare?

Con le tue finestre aperte sulla strada e gli occhi chiusi sulla gente,
con la tua tranquillità, lucidità, soddisfazione permanente,
la tua coda di ricambio,
le tue nuvole in affitto,
le tue rondini di guardia sopra il tetto.

Con il tuo francescanesimo a puntate e la tua dolce consistenza,
col tuo ossigeno purgato e le tue onde regolate in una stanza,
col permesso di trasmettere
e il divieto di parlare
e ogni giorno un altro giorno da contare.

Com'è che non riesci più a volare?

Con i tuoi entusiasmi lenti precisati da ricordi stagionali,
e una bella addormentata che si sveglia a tutto quel che le regali,
con il tuo collezionismo
di parole complicate,
la tua ultima canzone per l'estate.

Con le tue mani di carta per avvolgere altre mani normali,
con l'idiota in giardino ad isolare le tue rose migliori,
col tuo freddo di montagna
e il divieto di sudare
e più niente per poterti vergognare.

Com'è che non riesci più a volare?
com'è che non riesci più a volare?
com'è che non riesci più a volare?

(Fabrizio De André)

giovedì 5 luglio 2012

Al millesimo lettore


Ho esordito tre mesi fa rivolgendomi al mio venticinquesimo lettore, l'ultimo di quelli che, con falsa modestia, componevano il pubblico manzoniano, fissando un obiettivo che non si proponeva di essere raggiunto, ma ambiva ad essere  affrontato. 
Aver raggiunto anche il millesimo lettore non è quindi un risultato se si esclude che un tale evento non si era rappresentato nemmeno come seriamente possibile, che non si era ricercato e, perciò, mancava il presupposto per sperarlo. Non è un gran risultato nemmeno se si considera che questi mille lettori sono in realtà meno e sono, anzi, molti meno, gli stessi che piuttosto abitualmente ritornano a visitare questo luogo. Questa forma di curiosità anche abituale (o questo ritrovarsi casualmente in un luogo) non è, però, privo di valore, per la ferma convinzione che l'espressione e la condivisione delle idee è la vivificazione dell'individuo ed è il punto di partenza per riconoscere o dubitare di appartenere alla comune cittadinanza umana attraverso "la ragione".
Casa è il luogo da cui uno parte. Un verso dell'ormai conosciuto ai lettori, Eliot, tradotto, ha questo suono. Non sono mai riuscito a determinare tutti i significati possibili di questo verso: "la casa è punto di partenza" può significare infiniti concetti. A questo punto vorrei proporne uno filologicamente inesatto, ma adatto alla situazione, in versi che recuperano una serie di citazioni (tecnica congeniale alla poesia sperimentale del Novecento):

Casa è il luogo da cui uno parte 
- Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta 
si è posato uno sguardo consapevole su se stessi.
(Alcuni dicono che quando è detta la parola muore.
Io dico invece che proprio quel giorno comincia a vivere)
Una mescolanza adultera di tutto 
per dire qualcosa

domenica 1 luglio 2012

La «Gloriosa Rivoluzione» Americana


La Corte Suprema americana si è espressa, nei giorni scorsi, a favore della riforma sanitaria approvata dal presidente Obama. Il consenso della Corte Suprema, vertice del potere giudiziario, realizza negli Stati Uniti una funzione non secondaria di verifica della conformità di una legge alla Costituzione. In altre parole, la Corte Suprema ha affermato definitivamente che fra i principi espressi dalla Costituzione del 1787/89 e la volontà di creare un sistema sanitario aperto a tutti i cittadini non esiste contrasto.
Per un cittadino europeo è incomprensibile che in un Paese emblema di libertà e democrazia persistesse un residuo del liberalismo di vecchio stampo, che permettesse solo ai più facoltosi di usufruire di cure sanitarie e abbandonasse alla loro sorte gran parte dei cittadini indigenti. In una formula, il moderno sistema americano ancora tollerava che, persino in materia sanitaria, laddove sia in gioco l'interesse primario della vita, il singolo provvedesse a se stesso e l'incapace “s'arrangiasse”.
La riforma sanitaria approvata nel marzo del 2010 modifica la legislazione precedente sotto diversi aspetti. Negli Stati Uniti il sistema sanitario si fonda su assicurazioni stipulate direttamente dai cittadini, con l'esclusione di persone a basso reddito non affette da patologie pregresse tutelate da alcuni programmi ad hoc. In quanto contratti, le assicurazioni si basano sulla forza contrattuale delle parti, non offrono le garanzie di una tutela pubblica ed escludono, a discrezione della società assicuratrice, i soggetti che non costituiscono fonte di guadagno. Gli stessi cittadini impossibilitati, d'altro canto, potrebbero non ricevere un rifiuto dell'assicurazione, ma la richiesta del pagamento di premi spropositati per la copertura dei rischi assunti dalle società, richiesta che equivale a esclusione dalla stipulazione e, quindi, dal diritto alle cure sanitarie.
Sotto questo aspetto, la Riforma Obama non è rivoluzionaria nei contenuti, ancora lontani dalla realizzazione di un sistema europeo, perché risente talora della diffidenza anglosassone verso gli interventi pubblici. La legge, infatti, non interviene trasferendo allo Stato oneri finanziari e poteri per un sistema sanitario pubblico, ma prevede un intervento esterno del Governo sul sistema privato di stipulazione delle polizze, consentendo allo Stato di obbligare società e cittadini (in difficoltà) a concludere contratti di assicurazione a condizioni fattibili. E tuttavia, è impossibile negare il carattere sostanzialmente rivoluzionario della Riforma e della decisione della Corte Suprema.
Quando la Corte Suprema si pronuncia su argomenti del genere, il risultato è una silenziosa, gloriosa rivoluzione. Rientra nella tradizione “mite” anglosassone, che già nel 1688 annunciava al Continente distante un secolo dalla caduta dell'Ancien Regime, una gloriosa rivoluzione, un trionfo istituzionale, il raggiungimento a tutti gli effetti di una forma liberale di Stato in cui il potere assoluto si frazionava in poteri bilanciati fra loro e la politica generale si costruiva per dialettica e sintesi, invece che per ratificazione di una volontà univoca: una rivoluzione cauta, senza spargimenti di sangue e per via che gli storici, dopo Bernstein, definirebbero “riformista”.
L'operato della Corte Suprema (come quello del Parlamento inglese della fine del secolo XVII) è fortemente politicizzato, nel senso positivo del termine, perché storicamente contribuisce a segnare cambiamenti culturali e politici epocali. Parte di questo ruolo dipende dalla composizione peculiare della Corte, costituita da giudici nominati a vita dai Presidenti americani, del cui indirizzo politico tendono a essere espressione, anche nell'interpretazione della legge costituzionale.
Quando una componente prevale sull'altra, la Corte traduce in concreto indirizzi innovatori, senza modificare formalmente la Costituzione (che infatti risale a oltre due secoli fa), ma adeguandola.
Così, l'avvallo nel 1937, da parte della Corte, del New Deal rooseveltiano, il nuovo corso di finanziamenti pubblici, sostegno ai redditi e all'industria, creazione di enti nazionali, statalizzazioni e realizzazione di opere pubbliche per l'occupazione, fu a lungo osteggiato dai giudici che lo credevano in contrasto con i principi di libertà economica e liberistici espressi dalla Costituzione, ma segnò un importante “svolta riformista” verso lo Stato sociale e la più piena democrazia. Diversamente, in Europa il costituzionalismo democratico-sociale, certamente meglio realizzato, si ottenne a costo della seconda guerra mondiale e del nazifascismo, così come il prezzo del liberalismo e dello Stato di diritto furono la ghigliottina e la Restaurazione. 
Per queste ragioni la Riforma Obama avvicina maggiormente al modello ideale lo Stato sociale americano, per la verità ancora fortemente imperfetto, e potrebbe essere una seconda fase del nuovo corso o una rivoluzione, "gloriosa" nel metodo. L'atteggiamento politico è analogo, quel che cambia è questo: mentre la Rivoluzione inglese ha segnato un antecedente storico del cambiamento nei rapporti fra Stato e società, l'esperienza americana, su questo terreno come su altri, giunge forse tardiva (ma proprio per questo più necessaria).