mercoledì 18 aprile 2012

Thanatos athanatos

E dovremo dunque negarti, Dio
dei tumori, Dio del fiore vivo,
e cominciare con un no all'oscura
pietra io sono, e consentire alla morte
e su ogni tomba scrivere la sola
nostra certezza: thànatos athànatos?
Senza un nome che ricordi i sogni
le lacrime i furori di quest'uomo
sconfitto da domande ancora aperte?
Il nostro dialogo muta; diventa
ora possibile l'assurdo. Là
oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi
vigila la potenza delle foglie,
vero è il fiume che preme sulle rive.
La vita non è sogno. Vero l'uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.

Chiedo venia agli «speculatori di parole» di montaliana memoria, che giustamente sottolineeranno l'inesattezza di alcune ricostruzioni. Il mio obiettivo è sviluppare anche riflessioni personali e devianti, ma non del tutto prive di fondamento.
Thanatos athanatos, l'unica certezza che la conoscenza esatta dei fenomeni non ha ancora scalfito è la morte. Sorge spontaneo, anche se inusuale, il collegamento con la strofa di un testo di Fabrizio De André (Recitativo):
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume,
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà mai fine.
La formula proposta da Quasimodo, «nostra sola certezza» e negazione della «pietra oscura “io sono”» (cioè di quella entità grandemente sconosciuto cui si dà nome “io” o “esistenza”), non è e non deve essere piana come appare.
“Morte senza morte” è la traduzione dell'epigrafe segnata su ogni tomba; dunque l'incontestabile certezza umana è la necessità del morire. Ma, altra versione a mio avviso possibile può essere “Morte, non morte”. Questa seconda via, poco battuta, non esclude il senso della precedente, ma lo amplia. Necessità del morire salva, questa interpretazione sottintende una visione negativa dell'esistenza, contesa fra l'alternanza di morte e non-morte (e non di morte e vita, il che offrirebbe una concezione dualistica e "bilanciata"), e cioè ridotta a un lungo morire attraversato da brevi incidenti di accantonamento provvisorio dell'idea di morte. L'esistenza, in sintesi, è dominata dalla morte, al punto che gli istanti in cui il suo pensiero sembra venir meno si riducono a eccezioni.
La vita non è sogno. La constatazione dell'esistenza come alternanza fra morte e non-morte è la negazione di Dio e, insieme, delle certezze assolute che non sopravvivono più all'unica verità naturale: il Dio onnipotente, caposaldo del pensiero umano, si è rivelato il "Dio dei tumori" che permette il male e allo stesso tempo lascia sbocciare i fiori.
Ma il risveglio a questa asprezza del reale è pur sempre un risveglio: la vita, seppure amaramente, si rivela altro dal sogno, ma questa dolorosa rivelazione possiede aspetti anche non negativi; il valore assoluto e senza tempo si trasvaluta nel valore storico. Falso è l'Uomo a immagine e somiglianza, «vero è l'uomo e il suo pianto».
Sconfitto dalle domande aperte è l'uomo; la sconfitta è duplice: è disintegrazione delle speranze e rinascita su valori più deboli che contengono «la potenza delle foglie» (chiara figura retorica: la foglia è fragile e si trattiene a stento ai rami, ma ciononostante è forte nel suo sopravvivere come aggrapparsi quotidiano).

Il pianto geloso del silenzio. Dio del silenzio, apri la solitudine. La morte non-morte a cui si riduce l'esistenza è la morte lato sensu e non solo quella biologica. La morte per eccellenza è «il pianto dell'uomo geloso del silenzio». Infatti, come la formula thanatos athanatos, anche il pianto geloso è certezza; la differenza consiste in quanto segue: quella del sesto verso è certezza assoluta, metafisica, universale; questa è certezza relativa, del momento presente, constatabile, sperimentabile, storica, determinata. La prima è una forma, la seconda una sua manifestazione concreta (il pianto è manifestazione del dolore).
Inoltre, è morte aggravata dalla ricerca del silenzio. Non è semplice pianto, e quindi semplice dolore, ma è sofferenza incomunicabile: è incomunicabilità, è solitudine.
L'invocazione finale si rivolge proprio al Dio del silenzio. Può trattarsi dello stesso Dio dei tumori e del fiore vivo, dunque un'invocazione a quel Dio onnipotente affinché almeno abbia ancora un residuo di forza e pietà per salvare l'uomo dalla morte-solitudine. Oppure è il Dio-Assoluto, cioè la nuova consapevolezza storica (in questo caso Dio significa “certezza”, privata della natura metafisica); allora, l'invocazione si rivolgerebbe alla “divina indifferenza” (cfr. Montale), a una struttura quasi ineliminabile, radicata nell'uomo, a quella tendenza connaturata all'egoismo, perché l'uomo possa liberarsene e squarciare la sua condanna alla solitudine.

(Simone Risoli)

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