giovedì 28 maggio 2015

Estrema insicurezza

Proviamo a dare una lettura “alternativa”.
Pensiamo a quello che sta succedendo in questi giorni: un aspirante alla presidenza della Regione che si candida deliberatamente contro una legge che glielo impedisce; una pletora di politicanti professionisti in grado di spostare enormi quantità di voti e dalla dubbissima morale, con precedenti penali, che vengono accolti – o tollerati, se si vuole – ad appoggiare i candidati; la Commissione parlamentare “antimafia” che interviene – ma non troppo – a dover segnalare rapporti di contiguità con la criminalità. In effetti, si potrebbe obiettare, nulla è cambiato, è sempre stato così. Ma così non deve essere, e questo è sufficiente per pretendere che non lo sia.
Al fianco e al seguito di questi personaggi e si alimenta un contesto di superficialità. Quella superficialità che da tempo fa cedere molti italiani (e politici in primis) alla deresponsabilizzazione. Così, davanti a una legge chiara che invalida l’elezione di un presidente di Regione condannato per abuso d’ufficio, la scelta (o meglio: non-scelta) è quella di candidarsi comunque, forse in sfregio alla legalità, affermando che «chi vince governa», senza limitazioni di alcun genere; forse tentando, seguendo quel principio ormai consuetudinario del “proviamoci, se poi va male, si deciderà”. Principio cristallizzato, appunto. Scaricare ogni responsabilità (di controllo, di correzione, di decisione, di liceità) su qualcun altro, i giudici, in questo caso, come spesso è avvenuto nell’esperienza politica italiana; salvo poi riservarsi il diritto di accusare quel qualcun altro, a cui la responsabilità delle proprie non-scelte è stata rimandata, di aver agito male, travisato, ecceduto; e magari, con un presunto senno di poi, affermare che tutto era prevedibile, che il controllore in realtà è un infido persecutore. Infatti le conseguenze dei tanti De Luca candidati alle varie elezioni, passate e future, non ammettono dubbi: il politico e i partiti che ora si affidano alla sorte, confidando in chissà quale stravolgimento, stanno – e lo sanno – semplicemente temporeggiando davanti a un esito certo e alimentando una certa confusione che rallenta gli ingranaggi della democrazia, aumenta i suoi costi, ne riduce l’attuazione dei diritti. Perché di questo si tratta: inceppare le elezioni e i tribunali di procedure con conclusioni scontate; vanificare concretamente le consultazioni elettorali che, in applicazione della legge Severino, si concluderanno nella decadenza del politico già condannato. Questo “annullamento” di fatto dei risultati elettorali, però, non esaurisce i suoi effetti nella perdita di credibilità delle istituzioni, in un danno di immagine; questo temporeggiare e “provare” non è una scommessa a costo nullo per la società; fa crescere i costi di gestione: per indire nuove elezioni; per nominare commissari; perché in assenza di Amministrazione scadono debiti, aumentano interessi, si perdono affari, non si possono gestire spese sociali. Come in una fabbrica senza dirigenti.
Epperò – e in questo consiste la lettura “alternativa” – questo costume rivela una certa miseria della politica intesa come «somma disciplina di prendere decisioni»: l’insicurezza. Insicurezza che non è mancanza di forza da compatire. Insicurezza che è incapacità di assumersi responsabilità proprie, di compiere scelte per il timore di scontentare qualcuno, di “fare la voce forte” coi prepotenti, di opporsi alle logiche tradizionali, clientelari, al potentato degli uomini locali e di chi consegna, in qualunque modo, voti. È l’insicurezza dell’affidarsi alla correzione di altri, perché si è incapaci di gestirsi da soli.
È accaduto spesso in Italia che i partiti politici non affrontassero la questione morale al loro interno e la delegassero alle sentenze, lamentandone i risultati, accusando i magistrati di essere politicizzati, ma senza centrare la questione: la selezione della classe dirigente si esegue innanzitutto secondo standard civili, precedendo le decisioni dei tribunali ed evitando di trasformare le sentenze in salvacondotti o in atti eversivi. Risolvere alla radice il male.

D’altra parte, mi rendo conto, questa storia dell’insicurezza sarebbe quasi preferibile a una realtà attuale in cui, a muovere certe scelte, è più probabilmente l’interesse personale, che si associa a una mala gestione del potere e che prevale su quello  comune.

mercoledì 20 maggio 2015

Un nuovo patto sociale

A proposito delle pensioni e della Corte costituzionale.


Molti si sono precipitati a commentare la sentenza della Corte Costituzionale "sulle pensioni superiori a tre volte il minimo", tanti per criticarla, pochi a difenderla. Quasi nessuno ha voluto cogliere l'occasione per riflettere, sine ira et studio, sul nostro sistema di convivenza civile.
L'antefatto è noto: un decreto approvato dal governo Monti e convertito in legge dalla maggioranza assoluta delle forze politiche aveva previsto un limite all'adeguamento delle pensioni superiori all'incirca ai 1.500 euro lordi. In sintesi, si era deciso che per i pensionati che percepissero una retribuzione superiore a quella somma non fosse previsto nei successivi tre anni un aumento dei "sussidi" proporzionale al costo della vita (la così detta indicizzazione delle pensioni). Era il decreto "Salva Italia". 
Sono trascorsi secoli dal 2012. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima quella norma, con la conseguenza che i suoi effetti sono stati eliminati retroattivamente dall'ordinamento e i pensionati esclusi dall'indicizzazione hanno maturato un diritto a ottenerne i rimborsi. La Corte Costituzionale ha questo straordinario - e provvidenziale - potere. 
Nel dichiarare l'incostituzionalità della norma, la Consulta ha fatto leva essenzialmente su un principio così sintetizzabile: il limite previsto (di 1.500 euro) alla rivalutazione non garantisce una retribuzione sufficiente ai pensionati. Quindi, al di là delle manipolazioni demagogiche, la Corte non ha affermato una "intoccabilità" di diritti (se si può definire tale una pretesa esorbitante e a volte non giustificata dal versamento di contributi: si pensi a pensioni e vitalizi insostenibili, sopratutto in periodi di crisi, per la collettività). Né ha dichiarato illegittime forme di contribuzione solidale da parte dei più abbienti; principio, tra l'altro, presidiato costituzionalmente.
Da qui l'idea, niente affatto criticabile, di partire dalla censura della Consulta per coglierne lo spirito e modulare un sistema di restituzioni proporzionali delle indicizzazioni: totale per coloro con pensioni più basse (sempre di quelle superiori a 1.500 euro si tratta), progressivamente minori per gli altri, fino a essere escluse per i più ricchi. Ragionevole sarebbe un'esclusione degli adeguamenti sopra i tremila euro: altrimenti non si spiegherebbe il sacrificio imposto agli insegnanti che, pur guadagnando molto meno, hanno dovuto tollerare un blocco degli adattamenti al costo della vita dei loro contratti di lavoro. 
Bisogna oltretutto avvertire che un intervento legislativo di questo tipo non sarebbe affatto un atto di "disobbedienza" alla Corte: la Corte non censura pro futuro e non limita il potere normativo degli organi costituzionali; che questi intervengano in funzione correttiva sta nella prassi repubblicana e non determina alcun problema tecnico ma, anzi, molto spesso è la stessa Consulta a intervenire con la dichiarazione di incostituzionalità per poi caldeggiare contestualmente, nelle motivazioni delle sentenze, interventi dell'esecutivo o del Parlamento per disciplinare ex novo la materia, purché in linea con gli indirizzi emersi. Purtroppo il sistema attualmente proposto dal governo, che consiste nella restituzione solo ad alcuni pensionati di una cifra una tantum e per di più non a integrale copertura dei loro crediti, non pare possa soddisfare i requisiti posti dai giudici costituzionali e - per quanto possa partire da un buon proposito - rischia seriamente di essere caducata da nuovi ricorsi. Meno credibili e condivisibili le reazioni populiste di parte della politica. Chi vuole la restituzione di tutte le cifre a tutti i pensionati, compresi quelli per i quali parlare di indicizzazione è offensivo verso chi davvero soffre dell'aumento del costo della vita, conduce una battaglia ridicola. Fermo restando, poi, che molti di questi altri pensionati nemmeno hanno contribuito alla spesa previdenziale in modo tale da meritare un trattamento tanto elevato (si parla di pensioni davvero "d'oro").
Ma il punto è un altro.
Questa materia delle pensioni pone la questione del patto intergenerazionale su cui si fonda la società. Invita a riflettere su qual è e vogliamo che sia il tessuto sociale su cui si regga lo Stato-comunità. Se nell'Ottocento il patto tacito fra cittadino e Stato poneva al centro l'individuo e si fondava sullo scambio libertà individuale vs. garanzia di sicurezza (uno Stato che difendeva dall'esterno, ma verso cui difendersi), lo Stato sociale democratico del dopoguerra si radica in un contratto di servizi che i poteri offrono ai singoli e alle formazioni sociali (è lo Stato della difesa dei diritti inalienabili della persona e delle prestazioni pubbliche a favore dei cittadini organizzati in gruppi). Ora si impone un cambio di paradigma.
Quel cambio di paradigma già la Costituzione repubblicana seppe realizzare in maniera sorprendente: un patto, un passaggio di testimone fra generazioni, passaggio in senso atecnico perché fu un atto riformatore e rivoluzionario. Un vero capovolgimento, appunto. 
Ma su quale vogliamo che sia questo nuovo patto generazionale bisogna interrogarsi seriamente. Non basta cercare di cambiare tutto perché non cambi niente. Non basta rivendicare sacrifici per le generazioni presenti; non basta "rottamare" in principio le generazioni passate. Perché così nulla cambia. 
Non basta condurre battaglie ideologiche, a favore o contro, che non portino a risultati concreti. 
La materia previdenziale è emblematica di tutto questo. Non è tollerabile mantenere privilegi acquisiti e chiedere sacrifici futuri: significherebbe applicare un principio di fortuna; sarebbe una fortuna essere nati in epoche di spesa pubblica dissennata e aver maturato a vita i relativi privilegi; sarebbe una sfortuna essere nati "nell'epoca sbagliata". E il principio di fortuna è un principio di profonda ingiustizia sociale. Non si possono ripartire gli oneri usando due pesi e due misure: un sistema pensionistico svantaggioso e iniquo per i lavoratori dipendenti (per loro sembra non valere il criterio dei diritti acquisiti e delle aspettative deluse) e giovani (per i quali il lavoro e la pensione a maggior ragione sono quasi un miraggio), e sollevarsi quando si richiede un giusto contributo a chi ne ha le capacità (soprattutto economiche), indignarsi verso una collettività che domanda. Lo Stato sopravvive solo con questo patto tacito. Un patto di solidarietà, di responsabilità, di rispetto della dignità umana che travalica l'interesse personale, gli obblighi imposti, i doveri giuridici; che addirittura abbia la pretesa di rendere compatibile la propria sopravvivenza dignitosa non solo con quella della generalità delle generazioni presenti, ma di quelle future. Prepariamoci a partecipare al nostro compito di solidarietà verso le generazioni future e le presenti meno abbienti anche senza obblighi da parte dello Stato. Obblighi, altrimenti, giusti e giustificati, di cui già siamo e sempre saremo pronti a lamentarci.