Proviamo a dare una lettura “alternativa”.
Pensiamo a quello che sta succedendo in questi giorni: un aspirante
alla presidenza della Regione che si candida deliberatamente contro
una legge che glielo impedisce; una pletora di politicanti professionisti in
grado di spostare enormi quantità di voti e dalla dubbissima morale, con
precedenti penali, che vengono accolti – o tollerati, se si vuole – ad appoggiare
i candidati; la Commissione parlamentare “antimafia” che interviene – ma non
troppo – a dover segnalare rapporti di contiguità con la criminalità. In effetti,
si potrebbe obiettare, nulla è cambiato, è sempre stato così. Ma così non deve
essere, e questo è sufficiente per pretendere che non lo sia.
Al fianco e al seguito di questi personaggi e si alimenta
un contesto di superficialità. Quella superficialità che da tempo fa cedere
molti italiani (e politici in primis)
alla deresponsabilizzazione. Così, davanti a una legge chiara che invalida l’elezione
di un presidente di Regione condannato per abuso d’ufficio, la scelta (o
meglio: non-scelta) è quella di candidarsi comunque, forse in sfregio alla
legalità, affermando che «chi vince governa», senza limitazioni di alcun
genere; forse tentando, seguendo quel principio ormai consuetudinario del “proviamoci,
se poi va male, si deciderà”. Principio cristallizzato, appunto. Scaricare ogni
responsabilità (di controllo, di correzione, di decisione, di liceità) su
qualcun altro, i giudici, in questo caso, come spesso è avvenuto nell’esperienza
politica italiana; salvo poi riservarsi il diritto di accusare quel qualcun altro, a cui la responsabilità
delle proprie non-scelte è stata rimandata, di aver agito male, travisato,
ecceduto; e magari, con un presunto senno di poi, affermare che tutto era
prevedibile, che il controllore in realtà è un infido persecutore. Infatti le
conseguenze dei tanti De Luca candidati alle varie elezioni, passate e future,
non ammettono dubbi: il politico e i partiti che ora si affidano alla sorte,
confidando in chissà quale stravolgimento, stanno – e lo sanno – semplicemente
temporeggiando davanti a un esito certo e alimentando una certa confusione che
rallenta gli ingranaggi della democrazia, aumenta i suoi costi, ne riduce l’attuazione
dei diritti. Perché di questo si tratta: inceppare le elezioni e i tribunali di
procedure con conclusioni scontate; vanificare concretamente le consultazioni
elettorali che, in applicazione della legge Severino, si concluderanno nella
decadenza del politico già condannato. Questo “annullamento” di fatto dei
risultati elettorali, però, non esaurisce i suoi effetti nella perdita di
credibilità delle istituzioni, in un danno di immagine; questo temporeggiare e “provare”
non è una scommessa a costo nullo per la società; fa crescere i costi di
gestione: per indire nuove elezioni; per nominare commissari; perché in assenza
di Amministrazione scadono debiti, aumentano interessi, si perdono affari, non
si possono gestire spese sociali. Come in una fabbrica senza dirigenti.
Epperò – e in questo consiste la lettura “alternativa” –
questo costume rivela una certa miseria della politica intesa come «somma
disciplina di prendere decisioni»: l’insicurezza. Insicurezza che non è mancanza di forza da compatire. Insicurezza che è incapacità di
assumersi responsabilità proprie, di compiere scelte per il timore di
scontentare qualcuno, di “fare la voce forte” coi prepotenti, di opporsi alle
logiche tradizionali, clientelari, al potentato degli uomini locali e di chi
consegna, in qualunque modo, voti. È l’insicurezza
dell’affidarsi alla correzione di altri, perché si è incapaci di gestirsi
da soli.
È accaduto spesso in Italia che i partiti politici non
affrontassero la questione morale al loro interno e la delegassero alle
sentenze, lamentandone i risultati, accusando i magistrati di essere
politicizzati, ma senza centrare la questione: la selezione della classe
dirigente si esegue innanzitutto secondo
standard civili, precedendo le decisioni dei tribunali ed evitando di trasformare
le sentenze in salvacondotti o in atti eversivi. Risolvere alla radice il male.
D’altra parte, mi rendo conto, questa storia dell’insicurezza sarebbe quasi preferibile a una realtà attuale
in cui, a muovere certe scelte, è più probabilmente l’interesse personale, che
si associa a una mala gestione del potere e che prevale su quello comune.