giovedì 4 agosto 2016

Partiti di massa e masse di partiti

Nell'Ottocento, dopo l'unità, la situazione politica dell'Italia era rappresentata da una serie di partiti di notabili, associazioni prevalentemente private, circoli di galantuomini, borghesi o aristocratici che si dedicavano all'arte del governo. Di vera e propria "arte" si può parlare, perché la gestione dello Stato era riservata, destinata a pochi ma, soprattutto, non si rivolgeva alle masse. La vita politica era poco diversa da un'attività ludica e raffinatissima riservata a pochi esponenti che, per l'appunto, rappresentavano l'élite al potere. Le masse, di fatto, non erano rappresentate: i politici di professione o i galantuomini prestati alla politica non erano diretta proiezione di gruppi o interessi sociali. Poco diversa era la situazione nel resto d'Europa: al di qua delle Alpi stavano i Cavour e i Giolitti, al di là i Bismarck e i lord o i grandi industriali al Governo.
Come insegnava anche il mio caro professore di Storia del liceo, quel che caratterizza il Novecento e lo distingue nettamente dalla politica dei notabili della Destra e Sinistra storiche fu invece l'avvento dei partiti di massa. Il Novecento ha cioè generato - attraverso le nuove istanze sociali, i movimenti e la progressiva affermazione del suffragio universale - un nuovo scenario politico fondato sulla rappresentanza e sulla rappresentatività. Prima ancora che nelle istituzioni, dove il processo fu più lungo e irto, i partiti politici smisero di essere quei circolo di galantuomini illustri - talvolta innegabilmente illuminati - e iniziarono a diventare associazioni rappresentative di ceti o di interessi. Ogni gruppo, ogni formazione di cittadini accomunata da istanze o bisogni condivisi cercava un referente in un partito politico; da parte sua, il partito si costituiva proprio perché rappresentava o tendeva a rappresentare quelle istanze o bisogni oppure perché mirava a rappresentare a livello politico e istituzionale un certo gruppo sociale. Contadini, operai, industriali, religiosi, ma anche capitale, lavoro, ecc. Poco importa che cosa o chi rappresentassero: il punto di svolta era il nuovo criterio fondativo di quei partiti.
Di conseguenza - o a causa di ciò - la partecipazione stessa alle nuove formazioni partitiche registrava un'affluenza enorme, di gran lunga superiore all'epoca ottocentesca dei partiti dei notabili, anche perché il diritto di voto veniva esteso e con esso aumentava la consapevolezza che la politica non fosse un'attività come la falconeria ma un terreno in cui si confrontano e decidono interessi sociali fondamentali. Cittadini e gruppi sociali partecipavano in massa alla vita politica sia perché era caduto il principio secondo il quale il Governo era un'arte o un privilegio d'élite; sia perché i partiti si candidavano a rappresentare interessi comuni e diffusi e, talvolta, veri e propri bisogni. Erano partiti di massa perché rappresentavano interessi di masse; ma erano partiti di massa anche perché le masse, vedendosi rappresentate, partecipavano con interesse alla determinazione della vita politica. "Di massa" in senso soggettivo, quindi, perché le masse li componevano o quantomeno vi si riconoscevano: ne erano cioè rappresentate. Ma anche in senso oggettivo e cioè rappresentativi delle esigenze e delle rivendicazioni dei ceti.
L'avvento dei partiti di massa ha concretizzato il principio di rappresentanza e di rappresentatività: da una parte, ha reso effettiva e ampia la partecipazione e il coinvolgimento, l'interesse delle masse alla vita politica in quanto terreno di discussione dei propri ideali e interessi; dall'altra, ha permesso, per mezzo del partito stesso, di dare spazio e forza agli interessi e ideali concreti della cittadinanza. Da una parte, quindi, maggiore partecipazione; dall'altra, avvicinamento della politica alla vita sociale. 
Il partito diventa strumento di partecipazione della società civile alle istituzioni, concetto che peraltro si rinviene nella Costituzione italiana del 1948. E lo diventa perché si fa interprete di istanze presenti nella popolazione; ma anche perché, di conseguenza, la popolazione si sente chiamata in causa e partecipa in massa, attraverso i partiti, alla res publica.
Ora, è evidente che ad oggi il nostro Paese attraversa una fase di profonda crisi della rappresentanza politica. E' evidente una forte disaffezione alla politica, una scarsa affluenza alle urne durante le consultazioni elettorali, bassissime percentuali di votanti e un forte allontanamento dai partiti. Troppo facile sarebbe affermare che, in casi come questi, chi non vota ha sempre torto perché lascia decidere agli altri. Bisognerebbe invece seriamente considerare le cause di questa disaffezione che sfocia nell'astensionismo e, quindi, nella mancata partecipazione alla vita politica. 
Ebbene, da quanto si può fin qui capire, la principale causa di questa crisi di rappresentanza dei partiti risiede proprio nella inidoneità o - se si vuole usare un termine "incolpante" - nella incapacità di quei partiti di rappresentare bisogni, interessi e ideali sociali. Partecipazione attiva dei cittadini (che concretamente significa voti e consensi) e rappresentatività di interessi e ideali sono due facce della stessa medaglia. Se la capacità di rappresentare queste istanze non esiste, se cioè i partiti non rispecchiano istanze e non incarnano gruppi sociali, quegli stessi gruppi si disinteresseranno inevitabilmente dei partiti e della politica. 
Il rischio che si corre, però, non è allo stato dei fatti un ritorno ai partiti di notabili, ma piuttosto un passaggio dai partiti di massa (fondati sulla rappresentanza nelle due direzioni) a masse di partiti. Il passaggio, cioè ad associazioni indistinte, spesso trasversali, che non rappresentano interessi effettivi o formazioni sociali e istanze specifiche, ma che nascono e si sviluppano in regime di totale indifferenza rispetto alla società civile e alle classi sociali: e all'indifferenza, non si può che reagire con altra indifferenza. Di gran lunga peggiore è poi la percezione e spesso l'oggettività che alla rappresentanza di bisogni e interessi dei gruppi sociali si sostituisca un unico interesse corporativo: quello alla conservazione del solo potere. 
Masse di partiti sono insomma accozzaglie indistinte e prive di identità politica che non perseguono ideali, progetti, interessi con cui le masse posso confrontarsi e in cui potrebbero rispecchiarsi. La perdita di identità e di chiari ideali o interessi da rappresentare è infatti il primo motivo della disaffezione. Di questo non si può accusare certamente la sola popolazione che diserta le urne, così come non si poteva accusare il popolo che - in quel caso per legge - veniva tenuto lontano dalla politica ai tempi dei notabili ottocenteschi. Ma se in quest'ultimo caso la politica era lontana dalle classi sociali perché era un'attività alta e altra che nel popolo cercava solo una legittimazione formale, ora siamo invece davanti a un divorzio in cui la parte offesa è proprio la società civile che non trova punti di compatibilità. Non si può in questa circostanza risolvere la questione con un'accusa secca all'astensionismo se non si comprendono le ragioni del "coniuge offeso". Sono le masse ad allontanarsi dalla politica, perché la politica non riesce più a rappresentare i loro compositi interessi. Questa forma di alienazione dei partiti dalla vita sociale conduce inevitabilmente a una frattura di cui non si può incolpare la maggior parte degli elettori che, pur godendo della massima libertà, non possono che scegliere fra le offerte presenti sul mercato politico oppure non scegliere. Sempre maggiore è l'avvicendamento di formazioni politiche minori, transfughi, malaffare che induce poi la popolazione a diffidare della politica e a lasciare la scelta nelle mani dei pochi elettori superstiti. Il risultato è evidente a tutti: basterebbe cambiare rotta, se lo si vuole.