sabato 21 luglio 2012

"Il poeta è un fingitore" ovvero la comunicabilità della poesia e dell'uomo


Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.

E quanti leggono ciò che scrive,
nel dolore letto sentono proprio
non i due che egli ha provato,
ma solo quello che essi non hanno.

E così sui binari in tondo
gira, illudendo la ragione,
questo trenino a molla
che si chiama cuore.

(Autopsicografia, F.Pessoa)

Dal verso il poeta è un fingitore si origina un'ampia riflessione sulla creatura poeta anche nella sua natura di essere appartenente al genere umano.
Si tratta, per di più, di una questione centrale che trascende i confini della poesia.
La complessità del tema si può ridurre a uno schema: 
-Presupposto: almeno il poeta conosce se stesso quando scrive: finge consapevolmente.
-il poeta può condividere una parte di se stesso attraverso la poesia?
-il lettore può comprendere il poeta (il dolore del poeta)?
In altre parole, beninteso che proprio la tesi assunta come presupposto (il poeta conosce se stesso) è la più problematica, la poesia possiede una sua peculiare comunicabilità o il problema della poesia si riduce alla sostanziale incomunicabilità del dolore (e di ogni altra "sensazione" anche razionalmente inspiegabile) umano?
Se così può essere impostato il discorso, Pessoa propende esplicitamente per la seconda tesi: fra il poeta-uomo e i lettori-altri esiste una frattura profonda.
Tuttavia, questa cesura ha una duplice origine, dal momento che il poeta dispone del migliore strumento in suo possesso per comunicare la propria sofferenza, senza riuscire nell'intento: l'evocazione, il suggerimento, un uso deformato e personalizzato della logica, la grande allegoria del "correlativo oggettivo" sono finzione con cui il poeta non può altro che comunicare un'immagine o una falsa rappresentazione di sé; del pari, il lettore, si trova "tre gradi lontano dal vero": non può conoscere la sofferenza reale del poeta, può, al massimo, approcciarsi alla "finzione del dolore" che il poeta gli offre; ma nemmeno questa riesce a comprendere. Infatti, «quanti leggono ciò che scrive / nel dolore letto sentono proprio / non i due che egli ha provato / ma solo quello che essi non hanno».
Qual è la ragione di questa distanza? Procedendo per ipotesi, sembra che il solo modo per conoscere il dolore sia la condivisione, o meglio, la partecipazione. La forma più pura di partecipazione al dolore (che permette comunicabilità e comprensione) è l'eliminazione della differenza fra la sofferenza propria e altrui
Così Schopenhauer: 
Perciò è necessario che io partecipi del suo dolore come tale, che io senta il suo dolore come di solito sento il mio, e che perciò io voglia direttamente il suo bene come di solito voglio il mio. Ma ciò esige che io mi identifichi in qualche modo a lui, cioè che ogni differenza tra me e un altro, sulla quale si fonda il mio egoismo, sia, almeno in un certo grado, soppressa (Il mondo come volontà e rappresentazione).

Se solo la compassione permette di comunicare il dolore del poeta e dell'uomo, sorge spontaneo domandarsi: è possibile una sofferenza universale reale che non sia soltanto adesione esteriore?
Se il poeta è fingitore (e finge così completamente), se nel dolore letto gli altri sentono quello che essi non hanno, riducendo il dolore estraneo a un elemento che giace al di fuori della propria percezione e ricade, al più, nei loro discorsi sentimentali come motivo di orgoglio, è vera la sostanziale incomunicabilità del poeta anche attraverso la poesia. Il dolore rimane per natura un sentimento individuale che poesia e poeta, consapevole fingitore, si illudono di comunicare; sola conseguenza positiva è l'effetto consolatorio che da questa finzione o illusione si può trarre (cfr. Leopardi), ma è ineliminabile che «per tutti il dolore degli altri / è dolore a metà» (Disamistade, F. De André).A una tale conclusione provvisoria si può tanto pessimisticamente quanto realisticamente approdare. Per recuperare il nesso iniziale, alla base di una parte della incomunicabilità della poesia è forse l'indeterminatezza di cosa significhi e in che modo possa avvenire la comunicazione dell'uomo, la quale pare descritta, secondo Pessoa, da un meccanismo che si sottrae alla ragione («sui binari in tondo / gira, illudendo la ragione, / questo trenino a molla / che si chiama cuore»).
D'altra parte, bisogna analiticamente ammettere che la poesia sia tentativo di rendere comunicabile quanto è incomunicabile di natura, solo se si accetta il senso più profondo e esistenzialista della "comunicabilità fra coscienze". Più sinteticamente, forse il difetto non è nella poesia, ma nella natura - rectius nelle scelte che determinano la natura - umana.

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