Forse è ciò che ci infiamma,
forse ciò che ci tormenta. Certamente è ciò che ci accomuna.
Esiste in alcuni animali
l’esigenza naturale di appartenere a un gruppo. Non c’è molto da obiettare in
proposito, è un dato di fatto dell’evoluzione della specie. È empiricamente
facile notare che molti animali vivono in branchi, colonie, “associazioni” essenziali
per la loro sopravvivenza; diverso, però, è il fenomeno che caratterizza le
specie animali più evolute, i mammiferi in particolare, che non solo si
organizzano in gruppi, ma avvertono il bisogno di appartenervi.
Non è chiaro se in questi casi
l’evoluzione abbia selezionato “l’adattamento migliore”, ovvero non è chiaro se
questo desiderio di appartenenza che spesso impone di omologarsi a schemi
naturali e aderire a concetti, credenze, stili di vita predeterminati dal
gruppo per rispondere all’esigenza biologica di sentirsene parte giovi ai
singoli. Ma qui interviene l’evoluzione culturale che non si accontenta del
dato di fatto e che prova a discuterlo o spesso (come la colomba di Kant) a
trascurarlo.
Dimostrazione che questa tendenza
naturale esiste, ed esiste in ogni membro della specie – e della specie umana
–, indipendentemente dalla sua volontà, è il conflitto che noi viviamo tra questo necessario nostro carattere ereditato dalla
natura e l’altro – forse anch’esso largamente “biologico”: in sintesi, il
conflitto fra il bisogno naturale di appartenere e quello individuale di
astrarsi, distinguersi dal gruppo. In parte non accettiamo la rassegnazione e
l’omologazione davanti alla realtà e ci piace pensare al titanismo eroico di
Prometeo che, condannato sul Caucaso alla inevitabile
sorte assegnatagli dagli dèi, tenta di strappare le catene che lo legano, a
costo di strapparsi la carne dalle ossa; e pensiamo a lui come a un eroe debole
che non accetta di aderire per forza
a valori predeterminati, e riteniamo
questo un valore!
Ma avvertiamo una duplice spinta.
Non vivremmo questo contrasto se
fosse eliminabile a un cenno del capo.
D’altra parte, se lo viviamo,
noi, in
misura maggiore, a volte anche nella malcelata forma della “disposizione
degli intellettuali” a volerne sapere di più delle cose, esiste una ragione. C’è
chi si astrae dagli altri reprimendo
questo bisogno naturale di appartenere, ma credo che la scelta più ragionevole
sia altra. Credo che sia segno di maturità arrivare a una certa visione della
realtà, riconoscere la propria natura “comune” e affrontarla con l’altro bisogno connaturato di differenziarsi
ed emergere in quanto individui, in quanto diversi e – perché no, è ipocrita
negarlo – in quanto ci si pensa capaci e meritevoli di dare un contributo
migliore. Ma qui s’innesta il conflitto dell’eterno ritorno di quella
componente “animale” di voler fare gruppo e che a noi non basta affrontare con lo snobismo degli eletti che si ritirano
nelle loro torri di avorio. È questo equilibrio precario che certi affrontano
trascurando uno dei due aspetti a favore dell’altro, col risultato disastroso
di un estrema omologazione senza critica o di uno sfrenato individualismo.
Perché da una parte sta la negazione del nostro sentirsi diversi rispetto
agli altri e dall’altra il disprezzo e la strumentalizzazione del prossimo.
Diversamente, allorché sento il bisogno di allontanarmi in quanto individuo,
non posso trascurare il richiamo del mio
gruppo che si chiama “razza umana”.
Questo mio, nostro conflitto
consiste in tutto. Allontanarci dal gruppo ci costa sofferenza, perché
allontanarsi è antievolutivo. Ma noi
vogliamo riservarci questo sacrosanto diritto: quello del riconoscere le
proprie capacità distintive, di criticare gli schemi predefiniti. E allo stesso
tempo, però, vogliamo sempre e comunque avere a mente il sacrosanto diritto dei
“fratelli animali” a un’indefettibile dignità, senza trattarli con sufficienza.
Ovviamente questa è solo una soluzione; una soluzione compromettente e faticosa
che non risolve ma crea. Ma mi è impossibile rinunciare a questo conflitto dell’essere
animali sociali che guardano oltre il
gregge.
Simone Risoli