domenica 29 aprile 2012

III. L'avvenire dei diritti e delle libertà

Non negare diritti non significa necessariamente riconoscerli. Non vuol dire, cioè, necessariamente ammettere una disposizione naturale di quel soggetto a far valere la sua pretesa, ma può significare l'impegno per assegnargliela. Può sembrare una sottigliezza linguistica, in realtà si tratta del mezzo maggiormente efficace per demistificare, smascherare l'inconsistenza di alcuni ragionamenti considerati “forti” e sostenuti in questo Paese per arginare importanti riforme nel campo dei diritti civili. Chi – politici, accademici, religiosi, associazioni di tendenza – sostiene, ad esempio, che non debbano essere riconosciuti diritti civili agli omosessuali, perché “contro natura”, contrari al concetto di “famiglia naturale” basata sul matrimonio fra uomo e donna, commette innanzitutto un grossolano errore logico.
Prima ancora delle posizioni etiche e politiche sull'argomento, questa è la chiave di volta per comprendere lo stato attuale delle libertà: se si riesce a dimostrare che l'avvenire dei diritti è monopolizzato, frenato innanzitutto da una serie di inesattezze logiche, si disarmano tutte le presunte argomentazioni, si svelano, si sgretolano le false certezze senza possibilità di replica.
Ora, torniamo al punto. Se si negano i diritti di alcuni individui (consideriamo ancora gli omosessuali) sulla base del principio che essi “naturalmente non hanno diritti”, che “naturalmente i diritti della coppia sono i diritti della coppia eterosessuale”, è chiaro che restano da provare nei fatti le affermazioni (e la prova scientifica o metafisica non esiste). Ma, ancor prima, si formula un ragionamento assurdo. Qualcuno darebbe credito, senza nemmeno indagare un fondamento scientifico ma immediatamente a prima vista, alla frase “dato che piove, mi chiamo Simone”?
È bene dire chiaramente qual è il vizio logico di queste posizioni: affermare i diritti di un soggetto non significa riconoscergli nulla di naturale, ma garantirgli, assicurargli, prescrivergli qualcosa di giuridico-convenzionale, anche contro le pretese “leggi di natura”.
Il rischio del diritto naturale, purtroppo, è quello di un suo possibile uso strumentale, perché il termine “Natura” è estremamente vago e piegabile a interpretazioni illiberali. Ancora più imbarazzanti – e abbondano le affermazioni di alcuni nostri “rappresentanti” politici in questo senso – e infantili sono le tesi “estetiche” ed emotive: «non è giusto (e quindi non merita il riconoscimento di un diritto), perché mi fa ribrezzo». Ma logica formale ha la caratteristica dell’oggettività: chi presterebbe attenzione a un politico se, esaminando le sue frasi, le scoprisse incoerenti nel metodo, prima ancora che non condivisibili nel merito?
La persuasività di una tesi è opinabile, la sua assurdità è un dato di fatto. E gli elementi di assurdità sono molti in molti casi, ma sono pure la principale debolezza del sistema culturale che vuole assassinare le libertà.
Eccone alcuni.
Preteso punto di forza di queste tesi è il fascino di cui si ammantano, ergendosi a paladini dell’ordine naturale come ciò che è “buono e giusto”. La politica dei valori etici assoluti spesso diventa politica di intolleranza. Oltretutto, i diritti non devono essere ricalcati sulla falsariga di un modello indiscutibile e preesistente. Si deve ammettere che è riduttivo riconoscere e trasporre quel che accade sotto i sensi in regole, modi di convivenza, relazioni sociali, accettare l'equazione questo è, questo deve essere: dovremmo essere fieri di vagare nudi per le foreste, coperti di fango, di bere dai fiumi, di comunicare con versi gutturali, di abitare le caverne, di riprodurci come animali, di regolare le controversie secondo l'istinto, di lasciar svolgere alla malattia il suo corso naturale fino alla morte. Qualcuno dei galantuomini che giustificano la negazione dei diritti degli omosessuali, perché contro natura, crede che dovremmo vivere naturalmente dedicandoci allo stupro, abbandonando le città, regolando i rapporti con la forza, negando quel che, in un solo termine, si definisce “socialità”? La socialità è necessariamente altro dalla natura: ciò che preme è avvalersi in modo costruttivo di questa alienità, tendendo a una sempre maggiore affermazione e non alla compressione di diritti che creazione “civile” o “sociale”, e non naturale, sono. Creare diritti è segno di civiltà, ostinarsi a riconoscerli per temporeggiare sul tema è defilarsi da una cultura liberale.
Se poi si vuole accennare una soluzione scientifica al problema, Natura è la totalità dei fenomeni del mondo: nel momento in cui un fatto accade diventa naturale, cioè parte della Natura stessa.
Altro caposaldo di chi – ormai è evidente – ostacola l'avvenire delle libertà e dei diritti è semplice: esistono, secondo loro, diversità incolmabili in natura che gli uomini (o lo Stato) non possono e non devono eliminare. Così, un parlamento di mortali non può modificare la Natura che vuole l'uomo unito alla donna, i matti insanabili, la minoranza sopraffatta dalla componente più forte: in natura l'animale isolato dal branco muore; può forse il legislatore invertire questa legge immutabile?
Questo principio è un asservimento della logica all'ideologia liberticida. Dire che in natura gli uomini sono diversi, riconoscere che in natura sono diversi, non vuol dire che (come cittadini) gli uomini devono essere diversi! Questo è un salto logico enorme. Osservare che in natura “pesce grande mangia pesce piccolo” – scriveva Scarpelli –, non significa che si debba tollerare che le cose continuino a svolgersi in questo modo, che “pesce grande ha diritto di mangiare pesce piccolo”: non è forse quel che accade quando affermiamo, nella Costituzione, l'uguaglianza fra uomini che vivono in condizioni estremamente diverse?
Natura e diritto si sviluppano su piani separati: tutti i sistemi di norme, di regole, di precetti sorgono in contrasto con la natura. Nessuno, con cognizione di logica, giustificherebbe l'omicidio sulla base della constatazione che “così accade in natura”, “così in natura il più forte prevale sul più debole”, “l’uomo è predisposto alla violenza”.
Su un punto particolare è necessaria cautela. Politicamente una simile operazione, che logicamente è vizio di ragionamento, diventa un efficace strumento anti-liberale.
Bisogna guardarsi da coloro che oggi ostacolano la libertà e i diritti con queste argomentazioni, perché la loro politica spesso non è ignoranza del vero, ma falsificazione ben studiata.
Quando chi sostiene queste tesi è uno sprovveduto, i danni dovrebbero limitarsi, ma l’impatto culturale sulle masse (per le quali l’autorità è pur sempre un modello di comportamento) non è da sottovalutare.
Quando chi sostiene queste tesi compie una sottile operazione ideologica, cercando di fornire una visione oggettiva della realtà che, invece, ne è una deformazione, il pericolo è maggiore. Chi nega le libertà in nome della natura o di altre presunte certezze assolute non è un ingenuo che incorre in errore di distrazione, ma un raffinato esperto che occulta intenzionalmente le realtà, facendo leva su convinzioni primordiali, sulla sensibilità e, soprattutto, sull'impreparazione generale.
L'arresto delle libertà è un'aberrazione della ragione. Nel migliore dei casi è un errore logico, quasi sempre è un consapevole atto di giustificazionismo.
Nel nostro Paese le libertà potranno avanzare se si sveleranno i progetti politici; ma, sviluppare il dibattito sul piano puramente politico è sconveniente, perché obbliga ad assumere una posizione, a compiere una scelta di responsabilità, a dichiarare le reali ragioni e i reali scopi della propria azione.
Chi ostacola le libertà oggi non proclama pubblicamente: “Io sono l'uccisore delle libertà”. Chi arresta l'avvenire dei diritti, oggi, si dichiara convinto riformista, ma alimenta le pulsioni ataviche e istintive dell'uomo: quelle naturali, appunto.
La negazione delle libertà e dei diritti si fonda sulla riduzione della consapevolezza individuale e collettiva. Il futuro delle libertà e dei diritti dipende dal dubbio e dalla cultura personale.

(D’altra parte, mi rendo conto che questi discorsi sono troppo impegnativi e che vivere sereni e indisturbati è di gran lunga più comodo. Specialmente se il problema sembra riguadare qualcun altro; e anche a costo di vivere meno liberi).

(Simone Risoli)

mercoledì 25 aprile 2012

XXV Aprile. Il senso della Resistenza

Milano, Corteo da Porta Venezia a Piazza Duomo
per la celebrazione della Liberazione
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

(Piero Calamandrei)

lunedì 23 aprile 2012

Musica e Poesia. Bob Dylan

Con il testo di Bob Dylan si inaugura lo spazio dedicato al legame fra musica e poesia.

Hey! Uomo del tamburo, suona una canzone per me,
sono sveglio e non ho un posto in cui andare.
Hey! Uomo del tamburo, suona una canzone per me,
nel mattino della tua melodia metallica, io ti seguirò.

Anche se so che l'impero della notte si è ridotto in sabbia
scivolata dalla mia mano
e mi ha lasciato qui, cieco, fermo, ma ancora sveglio,
la mia stanchezza mi sorprende, ho le stigmate ai piedi,
non ho nessuno da incontrare
e la vecchia via vuota è troppo morta per sognare.

Hey! Mr. tambourine man, suona una canzone per me,
sono sveglio e non ho un posto in cui andare.
Hey! Mr. tambourine man, suona una canzone per me,
nel mattino della tua melodia metallica, io ti seguirò.
Portami in un viaggio sulla tua magica barca turbinosa,
i miei sensi sono stati strappati, le mie mani non hanno
                                                 tatto per aggrapparsi,
le dita dei miei piedi troppo intorpidite per muovere un passo,
aspettano solo i calcagni delle mie scarpe per vagabondare.
Sono pronto per andare ovunque, sono pronto per scomparire
nel mio corteo e lasciare che la tua danza sillabi il mio cammino,
prometto di affondare sotto il suo suono.

Hey! Mr. tambourine man, suona una canzone per me...

Anche se è possibile che tu senta ridere, e girare,
                           e andare con passo smanioso incontro al sole,
io non ho meta, è solo una fuga nella corsa;
solo in cielo non esistono confini che confinano.
E se senti vaghe tracce di un vacillare saltellante di rime
sul tuo tamburo a tempo, è solo un logoro buffone dietro di te
da quattro soldi, è solo un'ombra che stai vedendo
rincorrerti.

Hey! Mr. tambourine man, suona una canzone per me...

E allora fammi scomparire fra gli anelli di fumo della mia mente,
dentro le rovine di nebbia del tempo, oltre le foglie ghiacciate,
gli alberi infestati e terrorizzati, fra la spiaggia turbinosa,
lontano dalla ricerca estenuante della folle tristezza.
Sì, per danzare sotto il cielo di diamante, con una mano che fluttua libera,
disegnato dal mare, circondato dal circo di sabbia,
con la memoria e il destino trascinati sotto le onde:
lasciami dimenticare di oggi fino a domani.

Hey! Mr. tambourine man, suona una canzone per me...

>QUI per ascoltare il brano
>testo originale

(Bob Dylan, trad. libera S.R.)

sabato 21 aprile 2012

II. Libertà e arbitrio. Libertà individuale e collettiva

Se non intuitivamente immediato, è intellettualmente doveroso distinguere fra una libertà collettiva e una individuale.
Storicamente, la prima forma fa riferimento all'ideologia socialista, per la quale la ricerca di emancipazione dell’uomo, attraverso il raggiungimento della libertà negativa e positiva assieme, si conclude nell’istituzione della società senza classi sociali, di cui tratta Marx nel Manifesto e nella Critica al programma di Gotha. Solo allora, abolite le gerarchie e le disuguaglianze economiche, la libertà diviene, secondo il marxismo, diritto dell’intera umanità e non più prerogativa o privilegio di pochi; la libertà si combina necessariamente (o, talvolta, si subordina) con un altro principio, quello di uguaglianza: nella società comunista gli uomini sono ugualmente liberi e si raggiunge la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Dall’altra parte, il pensiero liberale tende a propugnare l’ideale di libertà individuale, diritto inalienabile della persona, contro l’eccessiva ingerenza dello Stato.
Detta “liberale” quest’ultima concezione e “libertaria” la prima, esse differiscono non unicamente per il diverso ordine gerarchico tra libertas e aequitas (i principi di libertà e uguaglianza), ma anche nel considerare la società un insieme di individui liberi (concezione liberale) piuttosto che una libera associazione di uomini in cui sia dato a ciascuno secondo il suo bisogno e richiesto secondo la capacità (concezione rousseauiana-marxista). In altre parole, si può concludere che la dottrina liberale insiste sulla libertà come valore individuale, determinando la superiorità dell’individuo sulla società, mentre quella libertaria riconosce nel gruppo, nella classe il vero soggetto da rendere libero. Benché non sia opportuno liquidare la questione in poche righe, è invece necessario considerare quali rivolgimenti estremi (degenerazioni per alcuni, conseguenze intrinseche per altri) sottintendano le due concezioni. Se, infatti, nella visione liberale è intrinseco un individualismo in potenza, quella libertaria non esclude il rischio di omologazione e restrizione delle libertà civili individuali a favore di un canone universale (la volontà generale, ad esempio). Ne derivano limiti, ma anche vantaggi, da cui entrambe le forme risultano inevitabilmente affette (limiti che si devono identificare in primo luogo con una assenza di equilibrio proporzionale fra uguaglianza e libertà).
Durante il Ventennio Fascista in Italia, Emilio Lussu e Carlo Rosselli fondarono il movimento di Giustizia e Libertà (1929), primo nucleo del Partito d’Azione a cui, nel dopoguerra e già durante la Resistenza, aderiranno diversi intellettuali come Montale e Bobbio. Non a caso, lo studio bobbiano dei concetti di giustizia, uguaglianza e libertà approda ad una sintesi tra le posizioni socialiste e quelle liberali, propria del movimento di Rosselli.
Bobbio individua i concetti sopraccitati come fondanti di ogni Stato democratico, fissandone in primo luogo la natura concettualmente differente: la libertà è riconoscibile in linea di massima come carattere intrinseco e proprio del soggetto, l’uguaglianza una relazione formale tra individui.
Perché questa necessaria valutazione sempre oscillante fra un'attenzione ai diritti individuali e a una dimensione di esercizio collettivo delle libertà?
Si possono offrire due risposte provvisorie. Una prima, di rilevazione sperimentale: l'organizzazione sociale degli stati in cui viviamo prevede, allo stesso tempo diritti che possono essere fruiti, quasi "consumati" e di cui si può disporre quasi arbitrariamente; altri che devono essere implementati, cioè "riempiti", costruiti in una dimensione esterna a quella del soggetto/individuo (si pensi allo sciopero). Alcune di queste libertà sono individuali (informazione, libertà di pensiero), ma assumono un carattere nuovo o superiore (un livello di maturità) solo nel loro esercizio collettivo: il diritto di espressione del pensiero sarebbe del tutto svuotato, mutilato dall'impossibilità della sua diffusione.
Una seconda risposta è di tipo costruttivo. Abbiamo rilevato i limiti delle due concezioni: arbitrio-individualismo da una parte, omologazione dall'altra. 
"Arbitrio", in particolare (fare tutto quel che si desidera) è oggi una grande forma di illibertà.    
Corrado Augias, nel suo ultimo saggio Il disagio della libertà, scrive:
In novant’anni di storia, dal 1922 al 2011, abbiamo avuto il Ventennio fascista e il quasi-ventennio berlusconiano: per poco meno di metà della nostra vicenda nazionale abbiamo scelto di farci governare da uomini con una evidente, e dichiarata, vocazione autoritaria. Perché? Una risposta possibile è che siamo un popolo incline all’arbitrio, ma nemico della libertà. Vantiamo record di evasione fiscale, abusi edilizi, scempi ambientali. Ma anche di compravendita di voti, qualunquismo: in poche parole una tendenza ad abdicare alle libertà civili
La libertà, intesa come il rispetto e la cura dei diritti di tutti - conclude l'autore - non è un’utopia da sognare ma un traguardo verso cui tendere.

(Vedi anche "La vera libertà")

(Simone Risoli)

mercoledì 18 aprile 2012

Thanatos athanatos

E dovremo dunque negarti, Dio
dei tumori, Dio del fiore vivo,
e cominciare con un no all'oscura
pietra io sono, e consentire alla morte
e su ogni tomba scrivere la sola
nostra certezza: thànatos athànatos?
Senza un nome che ricordi i sogni
le lacrime i furori di quest'uomo
sconfitto da domande ancora aperte?
Il nostro dialogo muta; diventa
ora possibile l'assurdo. Là
oltre il fumo di nebbia, dentro gli alberi
vigila la potenza delle foglie,
vero è il fiume che preme sulle rive.
La vita non è sogno. Vero l'uomo
e il suo pianto geloso del silenzio.
Dio del silenzio, apri la solitudine.

Chiedo venia agli «speculatori di parole» di montaliana memoria, che giustamente sottolineeranno l'inesattezza di alcune ricostruzioni. Il mio obiettivo è sviluppare anche riflessioni personali e devianti, ma non del tutto prive di fondamento.
Thanatos athanatos, l'unica certezza che la conoscenza esatta dei fenomeni non ha ancora scalfito è la morte. Sorge spontaneo, anche se inusuale, il collegamento con la strofa di un testo di Fabrizio De André (Recitativo):
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume,
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà mai fine.
La formula proposta da Quasimodo, «nostra sola certezza» e negazione della «pietra oscura “io sono”» (cioè di quella entità grandemente sconosciuto cui si dà nome “io” o “esistenza”), non è e non deve essere piana come appare.
“Morte senza morte” è la traduzione dell'epigrafe segnata su ogni tomba; dunque l'incontestabile certezza umana è la necessità del morire. Ma, altra versione a mio avviso possibile può essere “Morte, non morte”. Questa seconda via, poco battuta, non esclude il senso della precedente, ma lo amplia. Necessità del morire salva, questa interpretazione sottintende una visione negativa dell'esistenza, contesa fra l'alternanza di morte e non-morte (e non di morte e vita, il che offrirebbe una concezione dualistica e "bilanciata"), e cioè ridotta a un lungo morire attraversato da brevi incidenti di accantonamento provvisorio dell'idea di morte. L'esistenza, in sintesi, è dominata dalla morte, al punto che gli istanti in cui il suo pensiero sembra venir meno si riducono a eccezioni.
La vita non è sogno. La constatazione dell'esistenza come alternanza fra morte e non-morte è la negazione di Dio e, insieme, delle certezze assolute che non sopravvivono più all'unica verità naturale: il Dio onnipotente, caposaldo del pensiero umano, si è rivelato il "Dio dei tumori" che permette il male e allo stesso tempo lascia sbocciare i fiori.
Ma il risveglio a questa asprezza del reale è pur sempre un risveglio: la vita, seppure amaramente, si rivela altro dal sogno, ma questa dolorosa rivelazione possiede aspetti anche non negativi; il valore assoluto e senza tempo si trasvaluta nel valore storico. Falso è l'Uomo a immagine e somiglianza, «vero è l'uomo e il suo pianto».
Sconfitto dalle domande aperte è l'uomo; la sconfitta è duplice: è disintegrazione delle speranze e rinascita su valori più deboli che contengono «la potenza delle foglie» (chiara figura retorica: la foglia è fragile e si trattiene a stento ai rami, ma ciononostante è forte nel suo sopravvivere come aggrapparsi quotidiano).

Il pianto geloso del silenzio. Dio del silenzio, apri la solitudine. La morte non-morte a cui si riduce l'esistenza è la morte lato sensu e non solo quella biologica. La morte per eccellenza è «il pianto dell'uomo geloso del silenzio». Infatti, come la formula thanatos athanatos, anche il pianto geloso è certezza; la differenza consiste in quanto segue: quella del sesto verso è certezza assoluta, metafisica, universale; questa è certezza relativa, del momento presente, constatabile, sperimentabile, storica, determinata. La prima è una forma, la seconda una sua manifestazione concreta (il pianto è manifestazione del dolore).
Inoltre, è morte aggravata dalla ricerca del silenzio. Non è semplice pianto, e quindi semplice dolore, ma è sofferenza incomunicabile: è incomunicabilità, è solitudine.
L'invocazione finale si rivolge proprio al Dio del silenzio. Può trattarsi dello stesso Dio dei tumori e del fiore vivo, dunque un'invocazione a quel Dio onnipotente affinché almeno abbia ancora un residuo di forza e pietà per salvare l'uomo dalla morte-solitudine. Oppure è il Dio-Assoluto, cioè la nuova consapevolezza storica (in questo caso Dio significa “certezza”, privata della natura metafisica); allora, l'invocazione si rivolgerebbe alla “divina indifferenza” (cfr. Montale), a una struttura quasi ineliminabile, radicata nell'uomo, a quella tendenza connaturata all'egoismo, perché l'uomo possa liberarsene e squarciare la sua condanna alla solitudine.

(Simone Risoli)

lunedì 16 aprile 2012

I. Libertà negativa e libertà positiva


Libertà negativa

Per quanto possa sembrare paradossale definire il concetto di libertà (giacché la definizione postula la delineazione di limiti) o vana (perché il termine può assumere significati diversi, ora alquanto metafisici e ideali, ora utilitaristici o estremamente concreti), in un'ottica che fa leva sullo studio scientifico dei termini, si può giungere a una definizione basata sui significati storicamente assunti.
Il concetto può dunque essere ragionevolmente definito in base a due diverse forme in cui si presenta: libertà negativa e libertà positiva.
Teorico della distinzione fu il filosofo inglese di origine lettone Isahia Berlin nell’opera Quattro saggi sulla libertà; le due formule furono quindi rielaborate da Norberto Bobbio pochi anni dopo.
In senso lato con il termine “libertà negativa” (o “libertà da”, freedom from) ci si riferisce alla possibilità di esercitare una facoltà in un contesto in cui tale concreto modo di agire non sia limitato o vincolato a una decisione diversa da quella del soggetto agente; in altri termini, la libertà si definisce negativa in quanto assenza di impedimento o costrizione.
Secondo una prospettiva differente, si può facilmente dedurre che la libertà negativa, in quanto assenza di costrizione e impedimento, si identifica con la possibilità di ricavare, all’interno di un insieme di norme, la libertà di azione. Si può essere liberi perché non si è vincolati da un ostacolo o da un ordine (una regola, una costrizione, un'imposizione) esterno. In questo caso la libertà è una sfera individuale in cui la persona non subisce l'interferenza di un altro soggetto, ma in cui può muoversi, appunto, liberamente. Questa idea si affermò concretamente a seguito della Rivoluzione Francese del 1789.
Come lo stesso Bobbio afferma, questa libertà consiste nell’affidare al soggetto l'agire o non agire laddove le norme, di carattere giuridico o morale, permettono la facoltà di agire o non agire.
In sintesi, se è vero che la libertà negativa è assenza di costrizione e impedimento, essa può concretamente manifestarsi o intendersi a ragione anche come “diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono” (Lo Spirito delle Leggi, Montesquieu). Per altro verso, affermare la libertà negativa, ovvero ricercarla e realizzarla, significa ricavare sempre maggiori zone di determinazione, potere, possibilità di agire del singolo: questo è ciò che si intende ancora oggi col termine “diritti individuali”. Questa, secondo molti pensatori illuministi e dell'Ottocento, è l'unica vera forma di libertà dell'individuo rispetto agli altri individui e del cittadino rispetto allo Stato: assicurarsi una forma di indipendenza dal potere.

Libertà positiva

Il concetto di libertà positiva, o “libertà di” (freedom to), si definisce come possibilità di orientare il proprio volere verso uno scopo, ovvero come facoltà di compiere autonomamente una scelta.
Dunque, è chiaro che, diversamente dalla forma negativa, essa non si definisce in relazione a un altro termine (ovvero l’impedimento e la costrizione), ma è a tutti gli effetti da considerarsi come proprietà del soggetto. È evidente che la libertà negativa può esistere solo in opposizione alla negazione di libertà (il potere o l'autorità, ma anche i precetti religiosi, morali, sociali). La libertà positiva, invece, esiste indipendentemente da un limite ad essa, esiste in assoluto come possibilità di scelta.
La libertà positiva è, secondo Bobbio, autodeterminazione o autonomia in senso etimologico, ossia possibilità di darsi una regola da sè.
Sostenitore del concetto di libertà così inteso fu, fra gli altri, anche Kant. Egli, considerando la questione in sede etica-morale e politica-sociale, intende la libertà come postulato.
Per postulato, in ambito matematico, si intende un principio che non deve essere dimostrato. Ad esempio, il noto teorema di Pitagora non è un postulato perché, per affermarne la “verità”, è necessario svolgere alcuni passaggi logici che portano alla conclusione che il suo enunciato (= quello che afferma il teorema) sia, appunto, vero. Un postulato, invece, è una verità auto-evidente (apodittica) che, anzi, si pone come presupposto per dimostrare altre “verità derivate” (attraverso un procedimento epidittico).
Il concetto di libertà positiva è, in realtà, molto più ampio e dovrebbe comprendere anche il dibattito sulla volontà, interrogarsi sull'effettiva libertà dell'uomo rispetto alla natura e non solo in ambito politico.

Confronto in breve

Con alcune battute estratte da un dialogo immaginario, si potrebbe riassumere così il dualismo libertà positiva/libertà negativa, almeno per quanto riguarda il piano politico (quello sostanzialmente privolegiato dall'Illuminismo fino a Bobbio, del quale si consiglia il testo Eguaglianza e Libertà per l'approfondimento).

Un liberale puro (p.e. Montesquieu): Io sarò libero quando nessun giudice, nessun funzionario, nessuna autorità pretenderà di frugare senza diritto nella mia vita privata, con la pretesa di potere tutto rispetto a me che non posso niente. Non importa se gli uomini sono effettivamente uguali, ma che teoricamente a nessuno sia permesso di interferire con quel che vogliono, a meno che la legge, in quanto voce del popolo, non lo preveda chiaramente. Non voglio coltivare il mio orto sapendo che qualcuno potrà espropriarmelo senza ch'io abbia voce in capitolo.
Il potere e la libertà possono essere nemici. La libertà è liberarsi da un potere che decide al posto mio senza un criterio di prevedibilità. La libertà è essersi liberati di argini all'interno di un argine, è scavare il solco entro il quale io posso senza intrusioni. E, a dire il vero, il solco di questa libertà è l'insieme di un numero preciso di diritti naturali, inviolabili e inalienabili, contro cui nessun potere nulla può pretendere.

Un liberale kantiano: Essere liberi è il fondamento, la spiegazione: spiegazione del diritto, della morale, delle regole. È il punto di partenza. Infatti, la morale e il diritto sono una scelta; la scelta oscillante fra santità e dannazione e la possibilità di darsi una regola particolare che orienti le proprie azioni materiali. Questa scelta è l'autonomia di ricondurre i caratteri particolari del proprio io devo essere a una forma generale del dover essere: tutti gli uomini, in quanto uomini, sono liberi e devono far convivere le loro libertà.

Un liberale "positivo" puro: Libera è la volontà. Io non sono libero perché posso muovermi senza argini, ma sono libero per natura: gli argini non fondano la mia libertà, la de-limitano.

(Simone Risoli)

mercoledì 11 aprile 2012

L'«orgoglio» leghista

Considerazioni sociologiche?

Le “dimissioni” di Umberto Bossi, la “cacciata” dei fedelissimi, la “ritirata” dei coinvolti (politicamente, bisogna precisarlo) negli ultimi affari sono senz’altro scene a cui la politica non era abituata da oltre vent’anni.
Numerosi costituzionalisti, politologi, uomini comuni si sono interrogati da ultimo su quanto il vituperato “scontro fra politica e magistratura” sia il risultato dell’ingerenza dei giudici nei partiti e non, piuttosto, dell’incapacità delle segreterie dei partiti stessi di selezionare i propri esponenti e di sanzionarli (allontanarli da posizioni direttive ed espellerli) prima che sia un potere esterno ad accertarne l’incompatibilità col loro ruolo. Quel che è certo che il “dimissionamento” necessariamente forzato, negli ultimi anni, degli esponenti di partito da parte della magistratura non indica certamente (a livello di grandi numeri) un’anomalia del funzionamento della giustizia: sarebbe come accusare il medico di aver procurato l’infarto del paziente per lucrare sulle sue cure.
In questo clima generale, i “passi indietro” nella Lega sono sicuramente un’inversione. Marco Travaglio, culturalmente distante anni luce dalle rivendicazioni “padane”, ha voluto onestamente ammettere che il ritiro di Renzo Bossi da un Consiglio comunale come quello lombardo, pullulante di individui “sospetti” o addirittura indagati, è indubbiamente un’eccezione da riconoscere alla Lega.
Su questo punto non c’è nulla da obiettare. Si tratta effettivamente di un caso “eccezionale” in cui il movimento anticipa (come naturale) la stigmatizzazione sociale dei suoi esponenti che, in quanto soggetti pubblici, devono essere soggetti a una responsabilità politica dai confini più estesi di quella penale e civile.
Il punto debole di questa questione è altro. Si tralasci che la Lega, come partito di lotta e di “massa”, è per sua storia preordinato all’anti-sistematicità: una Lega che nasce come altro rispetto alla corruzione dei partiti non è credibile e anzi, non ha senso gettata nella mischia degli “orrori altrui”. Il punto di forza della Lega – ha dichiarato sempre Travaglio – è la spinta propulsiva che gli deriva dall’esigenza di dover delineare sempre una differenza (in positivo, secondo i leghisti) fra sé e gli altri partiti. Questo almeno teoricamente, considerando, comunque, che la cerchia bossiana è appena reduce da un’esperienza di governo che, partendo dai presupposti leghisti, ideologicamente la ha “compromessa”. La “pulizia di primavera” dei traditori dello spirito di partito, tanto evocata ieri a Bergamo, non si sottrae quindi a una logica politica di recupero del consenso elettorale e, invero, è quasi un ottimo pretesto per far espiare ad alcuni scelte impopolari passate (tra l'altro, non è stata una resa alla prassi degli altri partiti "romani" il solo sospetto che Renzo Bossi sia stato candidato per la parentela col leader maximo e non per meriti personali?) .
Ma, tralasciando questo, si dirà, resta sempre un’operazione meritoria che altri partiti non hanno deciso di attuare – bisogna ammetterlo.
Tuttavia, come si diceva, il punto debole della questione resta un altro; è, per così dire, intrinseco nella natura della Lega. Assistere alle lacrime e alla pubblica ammenda di un leader politico è una scena inusuale in questo Paese; accompagnare a misure effettive queste dichiarazioni è raro. MA quando quel leader presiede un partito innegabilmente fondato sul culto del capo, sull’infallibilità delle sue decisioni, sul totale divieto di critica nei suoi confronti, sulla soppressione di ogni dissenso, quella scena diventa incomprensibile. Quando è questione di orgoglio, ritrattare diventa politicamente poco credibile. Se l’essenza di un movimento è l’infallibilità del suo capo, l’errore del capo deve richiamare nei militanti intellettualmente onesti non già l’esigenza di cambiare tutto perché nulla cambi (le dimissioni di Bossi da segretario pesano come macigni, ma sono soltanto simboliche), bensì l’ammodernamento dei suoi “valori”, dei suoi modi e, indubbiamente, delle persone. Parafrasando Marx, non si può svuotare un sistema, mantenendone la struttura. Dati questi presupposti, celebrare l’orgoglio leghista nella condizione attuale è quantomeno imprudente. Finché sarà l’orgoglio il caposaldo di partito, su ogni scelta grava il peso dell’incoerenza (prima ancora di una domanda legittima: di che essere orgogliosi?).
Un’ultima considerazione. Qualcuno ricorderà le parole di un uomo certamente più conservatore e più autorevole del sottoscritto, Alessandro Manzoni, allorché ne I Promessi Sposi descrive le “decisioni” prese dalle masse infervorate e incontrollabili contro il prezzo del pane. Semplificando, il Manzoni, pur condividendo la giustizia di una protesta popolare, le descrive pressappoco come “masse bovine” che travolgono tutto sconsideratamente, incitate da demagoghi. Quel che si ricava da Manzoni è semplice: la giustizia delle ragioni viene oscurata dalla rozzezza dei mezzi. In altre parole, prendere decisioni per acclamazione, infiammarsi sulla spinta dell’umore generale non è democrazia: si chiama in altro modo.
Chi ha orecchi per intendere intenda.

lunedì 9 aprile 2012

Tre lezioni sulla libertà

E' tempo di introdurre tre brevi interventi (due di carattere teoretico, uno pratico di riflessione a partire dall'attualità) sul tema della libertà.
Il progetto prevede la progressiva definizione di un termine indeterminato e sfuggente che, per questa sua natura, rischia restare concetto astratto e non tradursi, seppure con grandi limiti, in realtà storica.
Nei prossimi giorni compariranno gli interventi contrassegnati con le indicazioni "I, II e III". Consapevole dell'immensa fatica necessaria per terminare una simile operazione, si chiameranno a sostegno gli interventi di politici, statisti e pensatori del '900, che, rielaborando le teorie classiche, hanno tentato una definizione possibile del termine, tendenzialmente seguendo due direzioni: a) quella descrittiva, scientifica-storicistica di analisi e ricostruzione della libertà come principio, come somma di atteggiamenti (dello Stato e degli individui) rintracciabili nel tempo e nello spazio, in forme diverse; b) quella prescrittiva, di ri-definizione o di ri-fondazione di un ideale, cioè di un principio-guida delle azioni e degli atteggiamenti singoli e collettivi.

venerdì 6 aprile 2012

Al maestro filosofo

In realtà, quotidianamente temo l'apparir del vero.
Quando svincolo l'uomo dalla Necessità e dal Fato,
lo sto condannando alla possibilità.
Non corre giorno in cui non pensi
al mondo e in nessun giorno il mondo
non cozza con quel che penso,
violentemente.

In realtà, il mio idealismo è la terapia
per affrontare il mondo
senza ripudiarlo,
ma esiste un fremito folle
in quel che scrivo e spesso
rileggo con diffidenza.

In realtà, il mio idealismo è la malattia,
è la cecità improvvisa
che non si spiega,
che non si aspetta,
che non si accoglie,
ma si constata.

E allora
«state contenti, umana gente, al quia…»
            No! No! No! It was impossible.

Ho ruminato tanto la Morte
(sogni di morte,
ricordi di morte,
versi, pensieri, esperienze, ossessioni
di morte)
da trasformarla in parola fumosa.

Ho umanizzato la morte.
Le ho assegnato nomi terreni:
“colpa”, “errore”
“rinuncia”, “rimorso”,
“confusione”, “nostalgia”, “rancore”,
“noia”, “inadeguatezza”, “passato”,
e spesso me ne sono innamorato.
Il nome più cupo è “fallimento”:
ha il mantello dello sconosciuto
che si può incontrare.

Per questo, quotidianamente anticipo
l'apparir del vero
e vivo in contrasto (e non so se esserne fiero
o indifferente):
mi tormenta quel che non ho fatto,
mi tortura vivere
se vivere è estirpare bivi ai rami,
se è accusarsi e assolversi.

Ora è come lampadina
su fondo di pece
capire
che il mio idealismo è
l'accartocciarsi del mio pessimismo,
come un istinto di sopravvivenza
o un'estetica della sofferenza.

In realtà, anche mentre scrivo non so
se la mia mano è mossa da una spinta
momentanea che non controllo:
e rinnego di essere l'autore di me stesso,
perché la mia grammatica umana
è insufficiente
ad evitarmi errori.
                                                         a S.F.
(Simone Risoli)