venerdì 12 giugno 2015

Il giudice liberale

Controllori e controllati secondo due diversi sistemi culturali.


Quando il giudice di Brecht, protagonista di una sua celebre poesia, si trova a contatto con gli immigrati che deve esaminare all'ingresso negli USA, prova dentro di sé un forte bisogno di giustizia. Si chiede - implicitamente - se sia giusto respingere persone affamate che attraversano l'oceano in cerca di un lavoro e di sopravvivenza; si chiede se abbia senso respingerle se non superino l'esame di ammissione; e alla fine consente a uno di loro di passare i confini, facendo sì che risponda correttamente al test.
Ora, questo episodio suggerisce a prima vista due temi: in primis è lampante il richiamo all'attuale situazione di sbarchi dei moltissimi profughi di Paesi in guerra e dei migranti per questioni economiche che non consentono loro di sopravvivere in patria. Ma di questo argomento vorrei parlare meno frettolosamente, quindi rinvio la riflessione - e me ne scuserete. Del secondo, invece, ora dirò qualcosa.
Il giudice democratico di Brecht è senz'altro un giudice socialista: un'idealizzazione dello scrittore, che voleva incarnare l'idea di equità e giustizia, quell'idea che per essere perfetta deve trattare gli individui non allo stesso modo, ma comprendendone le difficoltà, gli ostacoli economici, le debolezze sociali e comportarsi di conseguenza. E' l'idea riassunta dell'art. 3, secondo comma, della Costituzione italiana: "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (...)".
Se si osserva il modello americano, certo non si può ritenere che esista una tale figura, ma senz'altro si riscontra una figura di "giudice liberale", che ha una funzione speciale e che ai nostri sistemi, continentali e italiano soprattutto, manca. Si tratta di una funzione sociale riconosciuta dall'opinione pubblica e non da una legge. Perché se è vero che negli Stati Uniti il socialismo "non è di casa", è però vero che ai giudici (e, in senso lato, a chi esercita un ruolo di arbitro, un controllo finale su un'attività) è riconosciuta una fortissima autorevolezza, che è ben altra cosa dall'autorità. All'autorità di chi comanda si deve obbedire: lo impongono le regole; all'autorevolezza, invece, si riconosce un principio di giustizia, una ragionevolezza, una forma di rispetto e gratitudine, a cui si aderisce.
In quella concezione comune il "giudice liberale" è tendenzialmente un giudice buono. Non esercita poteri, non applica freddamente leggi, non costringe né limita libertà: non è questo che si pensa di lui. Fa valere i diritti, dirime le ingiustizie, riporta l'equilibrio (o ci prova): è il supremo difensore delle persone e delle loro pretese giuste; ed è questo che di lui si pensa. Il giudice non è un nemico che ordina e vieta,non è l'insensibile esecutore della legge, ma il sommo garante dei diritti. E questo non è semplicemente un mito.
Sin dagli albori della storia liberale americana, fu un giudice, agli inizi dell'800, a fare carta straccia di una legge che a suo avviso cozzava coi diritti fondamentali della Costituzione; e, ancora, fu la Corte Suprema, negli anni Venti del '900, a cambiare il modo di intendere la Costituzione per consentire al presidente Roosevelt l'approvazione del New Deal, l'atto rivoluzionario di ripresa del Paese. E tutto questo "a Costituzione invariata", senza cioè modificare una virgola del testo scritto alla fine del '700: perché non era necessario, perché il "giudice liberale" aveva, da solo, modificatone l'interpretazione, per renderla più moderna, al passo coi tempi e capace di rispondere ai bisogni attuali degli individui. Ma soprattutto, in tutto ciò, egli era percepito come l'amico del popolo e dei diritti, non come il cattivo castigatore o il guastafeste.
Quel che spesso da noi accade, invece, è che le regole e chi ne è il custode siano percepiti come limitativi, chi le applica è ritenuto insensibile alla vita dei cittadini, è colui che vuole mettere "il bastone fra le ruote" all'autonomia privata. I controlli ostacolano il progresso e sono inutili e dannosi; la funzione giudiziaria una forma di intromissione, spesso incompresa, se non addirittura una forma di persecuzione: il giudice è il controllore guastafeste. I controlli dell'autorità giudiziaria sono intesi come interventi eccessivi; le inchieste sulla corruzione sconfinano e invadono il campo della politica; la denuncia è sinonimo di spionaggio, slealtà e tradimento; le indagini e gli esposti sul malaffare, sugli illeciti nella gestione di opere e risorse pubbliche sono atti di disturbo, evitabili, che rovinano la tranquillità e la reputazione delle persone. Il controllore è il disturbatore pubblico, il moralista che "fa le pulci". Con tutte le riserve dei casi, gli esempi si moltiplicano: i processi contro i politici di turno sono operazioni infami e infamanti; arrestare chi mal gestisce il bene pubblico è eversivo perché delegittima e sovverte la volontà degli elettori; fermare grandi opere inquinanti o infestate da ruberie è una reazione al "nuovo che avanza". Così, ancora, quando si è abolito l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevedeva un accertamento del giudice sui licenziamenti ingiusti, si è sostenuto che quel controllo scoraggiasse le assunzioni, intralciasse l'attività d'impresa e introducesse privilegi; pochi si sono soffermati sulla sostanza: un controllo sul fatto che un licenziamento sia giusto o meno non è un danno all'impresa (che non deve temere verifiche di alcun tipo quando opera in buona fede), ma una garanzia di giustizia. Ecco, queste e altre situazioni hanno - e si sa - soluzioni più facili ma meno comode, ad esempio: commettere reati è di per sé un male sociale, e non il perseguirli; tenere lontani dalle cariche pubbliche soggetti che non possono (nemmeno legalmente) ricoprirle non limita la volontà popolare ma la attua ai massimi livelli; il voto non è un'esperienza catartica che purifica dando l'investitura, perché il potere è servizio alla comunità e non immunità, quindi può essere esercitato solo da chi è nelle condizioni di offrire un reale e utile servizio; indagare su opere in cui si annida la corruzione non è una piaga: la piaga sarebbe lasciar svolgere attività criminose che sfasciano il tessuto sociale (e la corruzione è la principale). E così via.
Chi controlla è ritenuto responsabile di rallentare o intromettersi (le cose - si può riassumere - andrebbero meglio senza). E il danno - si sostiene - è maggiore di quello che si avrebbe in assenza o con meno controlli e intromissioni. L'arbitro è oggetto di insulti delle opposte tifoserie, invece di essere percepito come colui che sorveglia sul regolare svolgimento del gioco. Questo è evidentemente un modo ideologico per affermare quel retaggio culturale primitivo di cui si fa fatica a liberarsi: coltivare ognuno il proprio orticello, voler essere lasciati in pace, percepire le regole come limiti stretti.
Epperò, contro una legge restrittiva si reagisce con la cittadinanza attiva per il cambiamento, non cercando sotterfugi, non con l'elusione. Nel nostro sistema culturale non manca il giudice liberale, il controllore giusto; manca principalmente il controllato onesto.

lunedì 1 giugno 2015

Ho appena appoggiato la porta...

Ho appena appoggiato la porta
lasciandoti andare,
senza vederti voltare.
Si aspetta un secondo di solito
o  sesto di secolo prima
di volgere indietro lo sguardo,
alla soglia usurata,
la fronte bagnata,
accartocciata e pesante.

Livida la notte e leggera,
la luna a passo di ballata lenta
avanza; la luna,
quel pensile oggetto
sputato nel cielo
da un dio senza tempo
che mai ebbe tempo di appianarle i crateri;
e ora crateri più grandi mi trivella
fra falange e falange ogni scelta.

Andare, restare, partire…

Casa è il luogo a cui si torna.
E resto, solo e pensoso,
in questo angolo di sfera distante.
S’ama solo quel che si teme
o non si possiede.

Casa è il luogo da cui si parte.
Un dì, se non andrai sempre fuggendo
di gente in gente,
ancora mi troverai qui,
a cambiare il mondo,
ma avrò scelto d’andare
e mai saremo

sullo stesso parallelo.


(Simone Risoli, giugno 2015)

giovedì 28 maggio 2015

Estrema insicurezza

Proviamo a dare una lettura “alternativa”.
Pensiamo a quello che sta succedendo in questi giorni: un aspirante alla presidenza della Regione che si candida deliberatamente contro una legge che glielo impedisce; una pletora di politicanti professionisti in grado di spostare enormi quantità di voti e dalla dubbissima morale, con precedenti penali, che vengono accolti – o tollerati, se si vuole – ad appoggiare i candidati; la Commissione parlamentare “antimafia” che interviene – ma non troppo – a dover segnalare rapporti di contiguità con la criminalità. In effetti, si potrebbe obiettare, nulla è cambiato, è sempre stato così. Ma così non deve essere, e questo è sufficiente per pretendere che non lo sia.
Al fianco e al seguito di questi personaggi e si alimenta un contesto di superficialità. Quella superficialità che da tempo fa cedere molti italiani (e politici in primis) alla deresponsabilizzazione. Così, davanti a una legge chiara che invalida l’elezione di un presidente di Regione condannato per abuso d’ufficio, la scelta (o meglio: non-scelta) è quella di candidarsi comunque, forse in sfregio alla legalità, affermando che «chi vince governa», senza limitazioni di alcun genere; forse tentando, seguendo quel principio ormai consuetudinario del “proviamoci, se poi va male, si deciderà”. Principio cristallizzato, appunto. Scaricare ogni responsabilità (di controllo, di correzione, di decisione, di liceità) su qualcun altro, i giudici, in questo caso, come spesso è avvenuto nell’esperienza politica italiana; salvo poi riservarsi il diritto di accusare quel qualcun altro, a cui la responsabilità delle proprie non-scelte è stata rimandata, di aver agito male, travisato, ecceduto; e magari, con un presunto senno di poi, affermare che tutto era prevedibile, che il controllore in realtà è un infido persecutore. Infatti le conseguenze dei tanti De Luca candidati alle varie elezioni, passate e future, non ammettono dubbi: il politico e i partiti che ora si affidano alla sorte, confidando in chissà quale stravolgimento, stanno – e lo sanno – semplicemente temporeggiando davanti a un esito certo e alimentando una certa confusione che rallenta gli ingranaggi della democrazia, aumenta i suoi costi, ne riduce l’attuazione dei diritti. Perché di questo si tratta: inceppare le elezioni e i tribunali di procedure con conclusioni scontate; vanificare concretamente le consultazioni elettorali che, in applicazione della legge Severino, si concluderanno nella decadenza del politico già condannato. Questo “annullamento” di fatto dei risultati elettorali, però, non esaurisce i suoi effetti nella perdita di credibilità delle istituzioni, in un danno di immagine; questo temporeggiare e “provare” non è una scommessa a costo nullo per la società; fa crescere i costi di gestione: per indire nuove elezioni; per nominare commissari; perché in assenza di Amministrazione scadono debiti, aumentano interessi, si perdono affari, non si possono gestire spese sociali. Come in una fabbrica senza dirigenti.
Epperò – e in questo consiste la lettura “alternativa” – questo costume rivela una certa miseria della politica intesa come «somma disciplina di prendere decisioni»: l’insicurezza. Insicurezza che non è mancanza di forza da compatire. Insicurezza che è incapacità di assumersi responsabilità proprie, di compiere scelte per il timore di scontentare qualcuno, di “fare la voce forte” coi prepotenti, di opporsi alle logiche tradizionali, clientelari, al potentato degli uomini locali e di chi consegna, in qualunque modo, voti. È l’insicurezza dell’affidarsi alla correzione di altri, perché si è incapaci di gestirsi da soli.
È accaduto spesso in Italia che i partiti politici non affrontassero la questione morale al loro interno e la delegassero alle sentenze, lamentandone i risultati, accusando i magistrati di essere politicizzati, ma senza centrare la questione: la selezione della classe dirigente si esegue innanzitutto secondo standard civili, precedendo le decisioni dei tribunali ed evitando di trasformare le sentenze in salvacondotti o in atti eversivi. Risolvere alla radice il male.

D’altra parte, mi rendo conto, questa storia dell’insicurezza sarebbe quasi preferibile a una realtà attuale in cui, a muovere certe scelte, è più probabilmente l’interesse personale, che si associa a una mala gestione del potere e che prevale su quello  comune.

mercoledì 20 maggio 2015

Un nuovo patto sociale

A proposito delle pensioni e della Corte costituzionale.


Molti si sono precipitati a commentare la sentenza della Corte Costituzionale "sulle pensioni superiori a tre volte il minimo", tanti per criticarla, pochi a difenderla. Quasi nessuno ha voluto cogliere l'occasione per riflettere, sine ira et studio, sul nostro sistema di convivenza civile.
L'antefatto è noto: un decreto approvato dal governo Monti e convertito in legge dalla maggioranza assoluta delle forze politiche aveva previsto un limite all'adeguamento delle pensioni superiori all'incirca ai 1.500 euro lordi. In sintesi, si era deciso che per i pensionati che percepissero una retribuzione superiore a quella somma non fosse previsto nei successivi tre anni un aumento dei "sussidi" proporzionale al costo della vita (la così detta indicizzazione delle pensioni). Era il decreto "Salva Italia". 
Sono trascorsi secoli dal 2012. La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima quella norma, con la conseguenza che i suoi effetti sono stati eliminati retroattivamente dall'ordinamento e i pensionati esclusi dall'indicizzazione hanno maturato un diritto a ottenerne i rimborsi. La Corte Costituzionale ha questo straordinario - e provvidenziale - potere. 
Nel dichiarare l'incostituzionalità della norma, la Consulta ha fatto leva essenzialmente su un principio così sintetizzabile: il limite previsto (di 1.500 euro) alla rivalutazione non garantisce una retribuzione sufficiente ai pensionati. Quindi, al di là delle manipolazioni demagogiche, la Corte non ha affermato una "intoccabilità" di diritti (se si può definire tale una pretesa esorbitante e a volte non giustificata dal versamento di contributi: si pensi a pensioni e vitalizi insostenibili, sopratutto in periodi di crisi, per la collettività). Né ha dichiarato illegittime forme di contribuzione solidale da parte dei più abbienti; principio, tra l'altro, presidiato costituzionalmente.
Da qui l'idea, niente affatto criticabile, di partire dalla censura della Consulta per coglierne lo spirito e modulare un sistema di restituzioni proporzionali delle indicizzazioni: totale per coloro con pensioni più basse (sempre di quelle superiori a 1.500 euro si tratta), progressivamente minori per gli altri, fino a essere escluse per i più ricchi. Ragionevole sarebbe un'esclusione degli adeguamenti sopra i tremila euro: altrimenti non si spiegherebbe il sacrificio imposto agli insegnanti che, pur guadagnando molto meno, hanno dovuto tollerare un blocco degli adattamenti al costo della vita dei loro contratti di lavoro. 
Bisogna oltretutto avvertire che un intervento legislativo di questo tipo non sarebbe affatto un atto di "disobbedienza" alla Corte: la Corte non censura pro futuro e non limita il potere normativo degli organi costituzionali; che questi intervengano in funzione correttiva sta nella prassi repubblicana e non determina alcun problema tecnico ma, anzi, molto spesso è la stessa Consulta a intervenire con la dichiarazione di incostituzionalità per poi caldeggiare contestualmente, nelle motivazioni delle sentenze, interventi dell'esecutivo o del Parlamento per disciplinare ex novo la materia, purché in linea con gli indirizzi emersi. Purtroppo il sistema attualmente proposto dal governo, che consiste nella restituzione solo ad alcuni pensionati di una cifra una tantum e per di più non a integrale copertura dei loro crediti, non pare possa soddisfare i requisiti posti dai giudici costituzionali e - per quanto possa partire da un buon proposito - rischia seriamente di essere caducata da nuovi ricorsi. Meno credibili e condivisibili le reazioni populiste di parte della politica. Chi vuole la restituzione di tutte le cifre a tutti i pensionati, compresi quelli per i quali parlare di indicizzazione è offensivo verso chi davvero soffre dell'aumento del costo della vita, conduce una battaglia ridicola. Fermo restando, poi, che molti di questi altri pensionati nemmeno hanno contribuito alla spesa previdenziale in modo tale da meritare un trattamento tanto elevato (si parla di pensioni davvero "d'oro").
Ma il punto è un altro.
Questa materia delle pensioni pone la questione del patto intergenerazionale su cui si fonda la società. Invita a riflettere su qual è e vogliamo che sia il tessuto sociale su cui si regga lo Stato-comunità. Se nell'Ottocento il patto tacito fra cittadino e Stato poneva al centro l'individuo e si fondava sullo scambio libertà individuale vs. garanzia di sicurezza (uno Stato che difendeva dall'esterno, ma verso cui difendersi), lo Stato sociale democratico del dopoguerra si radica in un contratto di servizi che i poteri offrono ai singoli e alle formazioni sociali (è lo Stato della difesa dei diritti inalienabili della persona e delle prestazioni pubbliche a favore dei cittadini organizzati in gruppi). Ora si impone un cambio di paradigma.
Quel cambio di paradigma già la Costituzione repubblicana seppe realizzare in maniera sorprendente: un patto, un passaggio di testimone fra generazioni, passaggio in senso atecnico perché fu un atto riformatore e rivoluzionario. Un vero capovolgimento, appunto. 
Ma su quale vogliamo che sia questo nuovo patto generazionale bisogna interrogarsi seriamente. Non basta cercare di cambiare tutto perché non cambi niente. Non basta rivendicare sacrifici per le generazioni presenti; non basta "rottamare" in principio le generazioni passate. Perché così nulla cambia. 
Non basta condurre battaglie ideologiche, a favore o contro, che non portino a risultati concreti. 
La materia previdenziale è emblematica di tutto questo. Non è tollerabile mantenere privilegi acquisiti e chiedere sacrifici futuri: significherebbe applicare un principio di fortuna; sarebbe una fortuna essere nati in epoche di spesa pubblica dissennata e aver maturato a vita i relativi privilegi; sarebbe una sfortuna essere nati "nell'epoca sbagliata". E il principio di fortuna è un principio di profonda ingiustizia sociale. Non si possono ripartire gli oneri usando due pesi e due misure: un sistema pensionistico svantaggioso e iniquo per i lavoratori dipendenti (per loro sembra non valere il criterio dei diritti acquisiti e delle aspettative deluse) e giovani (per i quali il lavoro e la pensione a maggior ragione sono quasi un miraggio), e sollevarsi quando si richiede un giusto contributo a chi ne ha le capacità (soprattutto economiche), indignarsi verso una collettività che domanda. Lo Stato sopravvive solo con questo patto tacito. Un patto di solidarietà, di responsabilità, di rispetto della dignità umana che travalica l'interesse personale, gli obblighi imposti, i doveri giuridici; che addirittura abbia la pretesa di rendere compatibile la propria sopravvivenza dignitosa non solo con quella della generalità delle generazioni presenti, ma di quelle future. Prepariamoci a partecipare al nostro compito di solidarietà verso le generazioni future e le presenti meno abbienti anche senza obblighi da parte dello Stato. Obblighi, altrimenti, giusti e giustificati, di cui già siamo e sempre saremo pronti a lamentarci.

sabato 7 febbraio 2015

Spleen e l'ardore

Spleen già batteva alla porta
E già aveva aperto da giorni il poeta
Che pure nessuno aspettava:
e se lo trovò davanti,
lui schiena dritta,
in ritardo d’un secolo sulla sua
tabella di marcia,
ma senza ritardo.

Piombava la pioggia sulle finestre.

E ora lì sta Spleen – o non lui –
Più irrequieto di prima,
ora che il passante si ferma,
che la porta sempre aperta resta
ad aspettare o a non aspettare,
che s’è accomodato il passante
a scrostare la ruggine dai chiodi,
e che sputa ancora la pioggia.

Ma Spleen non ha più di che lamentarsi.


(Simone Risoli, 4 febbraio ’15)

martedì 3 febbraio 2015

Costituzione «significa».

Col discorso del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle Camere e ai delegati regionali, si è tenuta una – al di là dell’opinione comune – non ordinaria lezione di “Costituzione spiegata agli elettori e alla politica”. Una “lezione”, per certi versi, di innamoramento ai principî costituzionali. Un discorso, lapidario in certi passaggi, da cui il sottoscritto vorrebbe ricavare non pochi svolgimenti.
Non è un caso che, il capo dello Stato, facile oggetto di idealizzazione da parte dei mass media, abbia sottolineato quasi silenziosamente che il suo ruolo di garante della Costituzione, e con esso la Costituzione stessa, «significa» e che «la garanzia più forte [di essa] consiste, peraltro, nella sua applicazione; nel viverla giorno per giorno». Così operando, l’attenzione si sposta dal senso dell’azione dell’istituzione (Presidente delle Repubblica) a quello quotidiano, importante (cioè letteralmente “pregno di importanza”) e attuale (ovvero “attento e strettamente inerente al presente”) della Costituzione.
Se la Costituzione significa, allora “porta il segno di qualcosa”; quello della resistenza, della cultura democratica, del fondamentale «patto fra cittadini e classe politica» (più volte richiamato da Mattarella) che è un segno di amicizia. Non è facile spiegare la Costituzione in certi termini né retorici, né emotivi, ma di vicinanza: alla Costituzione importa degli uomini.
Ma se la Costituzione “significa”, allora riproduce, contiene, recepisce, manifesta. E tra le cose che significa, essa significa in primis garantire il diritto allo studio; scelta non arbitraria quella di anteporre questo significato altri, perché proprio attraverso una banale disposizione come questa, lo Stato si impegna (parola di Mattarella), cioè assume un obbligo, da pari a pari, coi cittadini, promettendo loro quasi unilateralmente la più fondamentale opportunità di affermazione personale, in ogni ambito, e in regime di assoluta parità in partenza. Scelta non arbitraria se si pensa che non corrisponde a un’affermazione astratta di principio, ma che obbliga istituzioni e persone in carne e ossa a fornire strumenti e servizi concreti per lo sviluppo della personalità, individuale e sociale, e a eliminare ogni ostacolo naturale ingiusto che va sotto il nome di disuguaglianza. In quel significato si sostanziano – con una serie di obblighi, diritti e azioni materiali – la libertà responsabile e la giustizia.
Forse è spiegata, per questo, anche la “precedenza” rispetto al diritto al lavoro che tuttavia non si colloca affatto su un piano inferiore rispetto al primo e ne è in continuità, dal momento che col lavoro si realizzano due presupposti non secondari: la possibilità stessa di sopravvivenza, senza la quale ogni diritto non ha significato, e la dignità umana, nella sua forma più pienaLa Costituzione significa un «riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro». Riconoscere e rendere effettivo.
Costituzione significa pure promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza, anche attraverso le nuove tecnologie; significa un riconoscimento (un “amare” secondo Mattarella, per il quale sembra tornare questo tema di “affetto” della Carta costituzionale verso i suoi uomini) la ricchezza artistica e ambientale dell’Italia, perché in esso, e per mia modesta interpretazione, si coagulano cultura e bellezza, le quali corrispondono, prima che a un interesse immateriale, a una precondizione per sviluppare un pensiero critico e progressista; significa garantire la salute e l’integrità fisica.
Ma "Costituzione" è pure sinonimo di doveri, attraverso i quali i diritti si rendono effettivi. Significa «che ciascuno concorra, con lealtà, alle spese della comunità nazionale» e, con ciò, che attraverso la fiscalità tutti contribuiscano in proporzione alle proprie capacità economiche a mantenere l’impegno ambizioso dei Costituenti di garantire uguali diritti e uguali giustizia a chiunque (diritti e libertà che, tra l’altro, sono determinati nel contenuto e non lasciati a vuote formule). L’evasione fiscale, la corruzione, la mafia sono un cancro del sistema. Con la corruzione si disperdono annualmente infinite risorse che sarebbero altrimenti utilizzate per rimuovere le barriere sociali, economiche, personali e per garantire le libertà (politiche, sociali, civili) e il loro funzionamento. Così il cancro della mafia alimenta le disuguaglianze, oltre a negare in radice ogni diritto individuale, che sostituisce col metodo della violenza e della prepotenza; la mafia è la negazione di ogni principio di libertà, giustizia e razionalità; con la mafia si fallisce in quanto uomini.
Da qui l’ulteriore esigenza, non trascurabile se letta in quest’ottica di “spiegazione della Carta”: il diritto a ottenere giustizia che, se si vuole, e sorprendentemente, non può non assumere un senso più ampio della semplice garanzia della certezza, della stabilità dei rapporti, della conservazione delle situazioni di fatto (della proprietà in primis) e cioè – mi sia permesso –  la materna rassicurazione di una Costituzione che sussurra agli oppressi, ai più vessati, agli inguaribili onesti e idealisti, ai propri figli più fedeli: «Io ci sono, e sono con te ogniqualvolta avrai ragione».
E ancora – ecco l’ennesimo segno di alleanza della Costituzione post-fascista – la pacificazione, che non è solo la pace fra le Nazioni, ma l’interessamento implicito, laddove l’invidiata sorella statunitense lo afferma apertamente, alla serenità dei cittadini. Questo principio Mattarella sembra voler affermare nel riferimento inedito alla libertà «come pieno sviluppo dei diritti civili, nella sfera sociale come in quella economica, nella sfera personale e affettiva»: di questo la Costituzione si interessa. Non più uno Stato nemico, invasivo, che si intromette nella sfera privata anteponendo un interesse “superiore”; uno Stato, invece, che deve preoccuparsi della più piena autonomia anche emotiva, anche intima, anche sessuale dei suoi consociati: una lezione per chi, come la politica, approva (o non approva) le leggi che a quei principî devono uniformarsi.
Quelli della Costituzione - è questa l'osservazione più critica che posso permettermi - della ragione e dell'affetto*.

Simone Risoli


*Un ringraziamento a S. che dell'importanza della dimensione affettiva sta dando grandi prove.

mercoledì 7 gennaio 2015

Je suis Charlie

E io rifletto, senza essere lente convessa
o lasciar scivolare scintilla
dalla bocca degli occhi.

E avanza il mondo, maturo o guasto,
e uguale passa la mia - la tua -
sera, quasi senza sospiro o rumore,
senza fremito di foglia,
senza che solchi impronte la Storia
(che, pure, passa).
E il tempo? E il mondo?
Dove sono, distratti loro, distratto io,
stasera?
E il tuono che scuote, spacca,
sconquassa e che spezza?
Normale passa
fra pensieri lisci e questioni di piuma
- il giorno trascorso, la passeggiata,
le leggere carte, il sollievo annoiato
delle stelle; il capriccio, la gioia
puerili
i dispiaceri d'amore.
Ma che fa l'infinito immenso?
E io che sono?

Parla, silenzio:
il cancro ti ha sfondato le tempie

(Simone Risoli, 7 gennaio 2015)