Ho letto negli ultimi giorni alcune
considerazioni sulle primarie del centro-sinistra, tra le maggiori esperienze democratiche interne ai partiti di questo Paese. In quelle –
talvolta – condivisibili opinioni non ho potuto non notare, però,
alcuni errori d'impostazione che precedono la questione «materiale»
dei risultati e dei vincitori. Per tali ragioni, vorrei che le mie
riflessioni fossero lette come la constatazione di un errore di fatto
che riguarda il ragionamento generale prima che l'interesse di
parte.
È davvero tanto certo che la soluzione
di «sinistra» italiana debba
essere una cura a base di «americanismo e fordismo» alla nuova
maniera?
La
questione è male impostata se non muove da questo presupposto. Che
la sinistra di riferimento debba essere «quella di Obama e non
quella di Rosy Bindi» suona come provocazione e ha il tono del
proclama elettorale.
E
tuttavia non si può negare – si obietterà – un fondo di verità
e buon senso. Il modello rooseveltiano, l'homo
novus americano,
la sinistra moderata che coniuga ceto medio e ceto disagiato, etica
del lavoro e del merito sono i punti di forza del riferimento
obamiano.
Fin
qui, nulla da aggiungere. Ma, invece, si dimentica di aggiungere due
affermazioni assiomatiche: 1) il modello americano si regge su
fondamenta culturali distanti enormemente dall'Italia; 2) la sinistra
europea non è la sinistra americana. Detto quanto detto, la
conclusione non è "giansenista", e cioè la rassegnazione a una
cultura politica "meritata" e immutabile; ma non bisogna
nemmeno agire senza cognizione di causa, inseguendo ciecamente un mito senza ricercarne le condizioni.
In
altre parole, occorre domandarsi: e se i rottamatori del
centro-sinistra aspirassero a un modello senza avere compreso le
basi che tale modello hanno permesso? Se il tutto (il paventato
successo americano, il fallimento italiano, le differenze fra i due sistemi politici) fosse una
questione di «cultura» e sulla cultura dovessero incidere i rinnovatori? (Chiaramente, incidere sulla cultura non è una missione di cui possano incaricarsi singoli personaggi).
È
chiaro che, affrontando il problema da questa – ahimè! –
corretta prospettiva, resta poco di sostanzioso oltre l'enfasi dei programmi di alcuni candidati. Perché, infatti, la questione non è quanto
sia giusto cambiare tutto perché non cambi niente,
ma comprendere l'origine patologica della degenerazione politica
italiana. E, mi spiace ripeterlo, l'origine è culturale.
Da
questo discende una e una sola conseguenza: se l'origine è
culturale, bisogna modificare la cultura. L'impresa americana di
Obama è sicuramente storica; dopo il New
Deal,
l'epoca obamiana rappresenta uno dei maggiori progressi politici e sociali degli USA; detto questo, l'esperienza storico-culturale
degli Stati Uniti è altro da quella italiana. Invocare il successo
americano non significa di
per sé assolvere
il popolo italiano, anche se l'esperienza americana è una linea guida.
Ne è lucido esempio la scorsa esperienza elettorale. Il Presidente e i Rappresentanti
degli Stati Uniti sono stati eletti con il meccanismo previsto dalla Costituzione del 1787: una “legge elettorale” in vigore da oltre due secoli, con qualche modifica successiva, ha regolato l'espressione del voto di milioni di individui, laddove, in
Italia, la successione frenetica di leggi elettorali ha prodotto un
sistema particolarista e, a tratti, indecifrabile (l'eufemismo è d'obbligo). Che cosa ha
permesso allo spirito civile americano si adattarsi ai tempi senza
mutare forma? La perfetta corrispondenza fra cultura civile, etica e
politica.
Con
questo non intendo elogiare senza misura l'esperienza – imperfetta
– d'oltreoceano, ma denunciare un errore logico di chi vuole
importare dall'altra sponda dell'Atlantico i risultati sensazionali,
senza riconoscerne le cause e i limiti.Per chiarire con una visione d'insieme, sarebbe opportuno porsi due domande (dalle risposte tendenzialmente divergenti): per quali ragioni il sistema politico e partitico statunitense riesce ad autoregolarsi piuttosto efficacemente? Perché il sistema di derivazione statunitense di autoregolamentazione dei mercati non è un modello efficiente ed equo? (Occorre distinguere i piani, occorre agire consapevolmente).
E
con ciò, si giunge al secondo punto. Non
un solo
candidato del centro-sinistra ha citato in questi giorni Obama; non
tutti i candidati del centro-sinistra sono “uguali”. Il discriminante è la consapevolezza della
citazione.
Chi
condivide lo spirito obamiano delle «conversazioni al caminetto» o la spinta americana (e non obamiana) del neo-liberismo (confondendo, inoltre,
liberismo e meritocrazia, liberismo e iniziativa personale),
fraintende il ruolo della sinistra europea. Chi ha ricordato Obama, a sinistra, elogiandone, invece, l'attenzione alla
economia sociale e ambientale, per la quale il Presidente è ancora accusato dai detrattori
di essere un socialist
(termine
spregiativo per molti suoi concittadini), ne ha compreso la reale
carica propulsiva. Un uomo di sinistra (italiano) non può
disconoscere che il suo obiettivo politico è cercare, fra la via del
livellamento e la via delle disuguaglianze determinate dai rapporti
di forza o economici, quella della giustizia sociale.
Se
l'opera meritoria di Obama presenta caratteri progressisti, questo
dipende proprio dall'inedito “europeismo” della sua politica.
Assistenza sanitaria (quasi) pubblica, redistribuzione dei redditi,
istruzione garantita a tutti i livelli, integrazione delle minoranze,
sostegno ai lavoratori appartengono al centro-sinistra europeo,
socialdemocratico e non liberal-progressista in senso classico.
(Simone Risoli)
(Simone Risoli)