mercoledì 27 giugno 2012

Sul sentiero di Eliot

Ci sono almeno tre ragioni per le quali, sporadicamente e senza un ordine preciso, sto presentando e anteponendo a una "trattazione sistematica" o anche monografica del poeta inglese T.S.Eliot un approccio diretto ai suoi testi: una di ordine strettamente personale, perché in particolare Eliot è un modello per lo stile e i contenuti (e perché in questa direzione sono sostenuto da alcuni amici lettori); una seconda dipende dalla volontà di diffondere, forse ambiziosamente, l'opera di un autore troppo a lungo confinato fra gli intellettuali rinchiusi in una personale turris eburnea. Una terza è conseguenza di quel che lo stesso Eliot suggeriva.
Genuine poetry can communicate before it is understood. The impression can be verified on fuller knowledge; I have found with Dante and with several other poets in languages I was unskilled, that about such impressions there was nothing fanciful. They were not due, that is, to misunderstanding the passage, or reading into it something not there, or to accidental sentimental evocations out of my own past. The impression was new, and of, I believe, the objective poetic emotion. (La poesia genuina può comunicare prima di essere compresa. L'impressione può essere verificata a una più approfondita conoscenza; ho provato con Dante e tanti altri poeti, letti in lingua originale, di cui non conoscevo niente; una simile impressione [suscitata dalla poesia] era pura, non era deformata dall'immaginazione. Non c'era bisogno, né rischio che fraintendessi i passaggi o che ci leggessi qualcosa che non c'era o che riportasse a un'evocazione particolare del mio passato. L'impressione era nuova, di quelle che credo un'oggettiva emozione poetica).
 A questo proposito, negli intermezzi sarebbe interessante trasformare questo spazio in un'offerta alla condivisione e al dibattito, che preceda una sua annotazione critica e quanto più possibile originale. 

SPLEEN

Sunday: this satisfied procession
Of definite Sunday faces;
Bonnets, silk hats, and conscious graces
In repetition that displaces
Your mental self-possession
By this unwarranted digression.

Evening, lights, and tea!
Children and cats in the alley;
Dejection unable to rally
Against this dull conspiracy.

And Life, a little bald and gray,
Languid, fastidious, and bland,
Waits, hat and gloves in hand,
Punctilious of tie and suit
(Somewhat impatient of delay)
On the doorstep of the Absolute.

Domenica: questa processione soddisfatta
di sicure facce domenicali;
cuffie, cappelli di seta, consapevoli grazie
in una ripetizione che spiazza
il pieno possesso delle facoltà mentali
con questa digressione ingiustificata.

Sera, luci e tè!
Bambini e gatti per la strada,
depressione incapace di affrontare
questa cupa cospirazione.

E la Vita, calva e grigia,
languida, esigente e slavata
aspetta, cappello e guanti in mano,
raffinata nell'abito e nella cravatta,
un po' impaziente del ritardo,
davanti alla soglia dell'Assoluto.

(trad. libera, S.R.)

domenica 24 giugno 2012

Le città di Calvino. Un'ipotesi di lettura



Abbiamo aperto la questione ambientale!

Ne Le città invisibili (1972) il racconto delle città di un Impero in rovina, in forma di resoconti a Kublai Khan stilati da Marco Polo, si fonde con una descrizione ideale, lasciando abbandonare il lettore, almeno una volta, a una considerazione estetica: esiste un solo genere migliore della poesia ed è la prosa poetica.
Nasce così la riflessione sulle città (e tutto ciò che rappresentano) «impossibili» secondo l’autore, ma attuali, che «s’allargano in città concentriche in espansione», «città-ragnatela sospese su un abisso», città che solo in tarda età rivelano il loro splendore nascosto nel ricordo di una scala di gusci di chiocciole o di friggitorie illuminate a notte fonda.
Le città invisibili – come dichiarò lo stesso Calvino – sono «un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili», un'ipotesi alternativa di concepire la città come luogo di scambio e interazione e lo sviluppo urbanistico come processo di espansione delle relazioni, intrecci di memorie ed esigenze, polis corporea che vive attraverso mura in costruzione ed edifici crollati. Poiché lo stesso autore lo suggerisce, le città invisibili possono assumere significati nuovi e la convivenza, nel racconto, fra utopia e realtà (fra inferno e utopia) sono in grado di mostrare quel che oggi la città possa rappresentare. La questione urbanistica e la questione ambientale diventano un tutto organico, perché si rivelano entrambe un’appendice della questione antropica.
Il nucleo del problema si trasferisce dalla condanna della città, della costruzione, della tecnologia all'azione umana, che diventa operazione interpretativa (nella misura in cui conferisce un significato, positivo o negativo), creatrice e distruttrice. Un significato della città e dell’ambiente non potrebbe esistere indipendentemente dalla coscienza umana; mentre ambiente e città, come realtà fisiche, possono esistere indipendentemente dall'uomo (ma non è valida l'implicazione inversa). Così, nel rivolgere lo sguardo a quanto è accaduto (la storia) o nel tenderlo a quanto dovrebbe accadere (il progetto), l’urbanizzazione, la piena disposizione dell’ambiente da parte dell’uomo (la piena disposizione dell’uomo da parte di altri uomini) presentano possibilità sempre diverse e la razionalità del problema si riduce a scelta. La scelta non cade sul'an (il se), ma sul quomodo (in che modo) disporre; l'effetto della scelta è irreversibile, perché segna una prassi: il modo di concepire e attuare la concezione non coinvolge soltanto i materiali, l'estetica, l'aspetto della città, ma è il riflesso del modo in cui si costruiscono le idee di convivenza e umanità.
In due interventi agli studenti universitari di New York, Calvino affermò:
«Credo che non sia solo un’idea atemporale di città quella che il libro evoca, ma che si svolga, ora implicita ora esplicita, una discussione sulla città moderna. Da qualche amico urbanista sento che il libro tocca vari punti della problematica, e non è un caso perché il retroterra è lo stesso. E non è solo verso la fine che la metropoli dei big numbers compare nel mio libro; anche quel che sembra evocazione di una città arcaica ha senso solo in quanto pensato e scritto con la città di oggi sotto gli occhi.Che cos'è oggi la città, per noi? Penso di aver scritto qualcosa come un ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città. Forse stiamo avvicinandoci a un momento di crisi della vita urbana e Le città invisibili sono un sogno che nasce dal cuore delle città invivibili. Oggi si parla con eguale insistenza della distruzione dell'ambiente naturale quanto della fragilità dei grandi sistemi tecnologici (…). La crisi della città troppo grande è l'altra faccia della crisi della natura. L'immagine della “megalopoli”, la città continua, uniforme, che va coprendo il mondo, domina anche il mio libro».
È trascorso qualche decennio dal 1973. Il percorso paradigmatico della città ha raggiunto risultati ben più complessi, ma ancora ascrivibili alla formula aperta fissata da Le città invisibili. Soprattutto, quella metafora (non tanto immateriale, però, come è l'allegoria) ora può essere riletta nella sua forma pura di monito all'atteggiamento, psicologico e individuale o pratico e collettivo, dell'uomo; senza tetre previsioni, catastrofismo, pregiudizio verso l'attività umana ma con un avvicinamento a quel che può significare, con l'azione (l'esempio) o con la volontà espressa. Nessuna condanna alle città, che sono riflesso umano e sono «un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d'un linguaggio: le città sono luoghi di scambio».
Ma questi scambi – come illustrano i libri di storia economica – «non sono solo scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi» e queste città (rectius la generalità delle città invisibili) sono immagini, potenziali «città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nelle città infelici» e nell'infelicità complessiva di un Kublai Khan imperatore, possessore di tutte le città (e, quindi, colui che ne dispone), che al termine del suo regno osserva malinconico e impotente la rovina, la crisi, la disgregazione di quella potenza, di quella proprietà che ora sfugge al suo controllo

(Simone Risoli)

giovedì 21 giugno 2012

Ballata per John Donne

John Donne, penso, era un altro così (…)
conosceva l’angoscia del midollo,
la terzana dello scheletro,
nessun contatto possibile alla carne
gli placava la febbre delle ossa... 
(T.S. Eliot)
Proprio non sentiva il ritmo di terzana
traversargli il corpo freddo raggelato
e Dio battergli il petto concavo e vuoto,
ma il mite Mediterraneo strappargli
un ettaro di pelle a ogni secolo
di storia passata con gli uomini
e, quando un guscio vuoto volle
a contenergli il vuoto guscio,
non gli restava scheletro per le larve.

Non sentiva proprio il ritmo di ballata,
ma le campane a festa,
funebre fanfara festosa,
la sposa eterna dell'Amore
e non il canto degli amanti traditori
sbeffeggiare, né Dio battergli il petto
o violentargli l'anima di assilli,
né i cerchi disegnati sulla carta
perché glieli strappava l'onda.

E la dimora che restava,
palafitta sull'Atlantico.
Diventava muta la campana. Ora ancora
suona per le isole sperdute in alto mare,
per gli sfiniti sensi e i bulbi degli occhi
appassiti a superare l'orizzonte.
Si ama anche (epigrafava) col carbonio
delle ossa – ed è così che voglio amare,
uomo, donna, terra, umanità, disumanità...

Disumanità, soprattutto.

(Simone Risoli, giugno 2012)


Alcuni testi di J.Donne: Song (Go And Catch A Falling Star), No man is an island, A Valediction: Forbidding Mourning, Batter my heart.
La poesia di Eliot è Sussurri di immortalità.

domenica 17 giugno 2012

Il 17 giugno, la Grecia e il Leviatano europeo


Si attende la seconda fase delle elezioni in Grecia. La situazione frammentaria della prima consultazione elettorale aveva impedito la formazione di un Governo e richiesto lo scioglimento della Camera. Alcuni allarmanti segnali di insofferenza diffusa si sono tradotti nelle scorse elezioni in una scelta politica sbilanciata a favore di forze illiberali e, per certi versi (o almeno nel significato non formale che si vuole attribuire al termine), non-costituzionali (per recuperare l'argomento, I nazisti a casa di Platone). 
La situazione greca, come è stato fatto notare, sembra riproporre gli elementi storici, culturali, politici, sociologici della Germania del primo dopoguerra: forti pressioni e obblighi internazionali, disastro economico, crisi del funzionamento della democrazia e inadeguatezza degli strumenti di consultazione popolare, rischi di ingovernabilità, ascesa delle forze antidemocratiche, sospensione (di fatto) delle garanzie costituzionali.
Le differenze, per quanto contingenti, sono in verità altrettante: la storia si compone di eventi contingenti; la storia è somma di eventi contingenti che, sempre a posteriori, postulano una riflessione, una induzione di linee direttive generali. Corsi e ricorsi storici, in definitiva, si realizzano a livello macro-storico e sono schematizzazioni di fatti eterogenei; la determinazione delle cause storiche è sempre la considerazione di un insieme di eventi primari e secondari (cfr. Sei lezioni sulla storia, E. Carr).
Non per questo la situazione è meno delicata; anzi, forse lo è ancor più. Parafrasando una celebre sententia di Tacito, o i fatti accadono necessariamente - e allora pongono il problema di non poter essere modificati e, quindi, dell'insufficienza dell'uomo ad agire contro la storia e la necessità - oppure accadono senza ragione - e allora alimentano l'inquietudine di dover affrontare fatti dai rivolgimenti imprevedibili e dalle conseguenze inattese.  
Il 17 giugno è la data fissata per la seconda tornata greca. L'analisi delle intenzioni di voto sembra oscillare fra l'illustrazione di un risultato incerto, come quello che caratterizza il Parlamento uscente, e uno meno indefinito. Al centro del dibattito elettorale si sviluppa questione europeista. Il conflitto di questo 17 giugno rischia di trasformarsi in un'opposizione fra filoeuropeisti ed euroscettici.
La questione europea rischia così di essere affrontata troppo superficialmente. L'Unione Europea è sicuramente un'esperienza particolare, essendo al contempo embrione di una forma federale irrealizzata e soggetto più sviluppato rispetto a una confederazione di Stati assolutamente indipendenti; la moneta unica e le implicazioni di unità di politica finanziaria che dovrebbero derivarne sono un vincolo fra Stati maggiore rispetto a quello che legava la Confederazione del Reno. Ridurre il fenomeno all'assoggettamento della sovranità nazionale (concetto, peraltro, completamente abbandonato dagli studi di diritto pubblico, che lo considerano residuo storico-ideologico) alle scelte invasive di un'organizzazione sovranazionale è del tutto pretestuoso. Infatti:
1) gli Stati sovrani sono comunque autonomi: possono recedere dalla UE, secondo forme e limiti che essi stessi hanno sviluppato. Ad es., in Italia, la Corte Costituzionale italiana ha ricavato dall'art.11 Cost. il principio della prevalenza del diritto comunitario su quello nazionale equivalente, entro il limite - che comporta l'exit dall'Unione - del rispetto dei diritti fondamentali della persona; inoltre, giuridicamente, le decisioni dell'Unione si riferiscono spesso allo Stato, il quale sceglie la propria politica di attuazione delle direttive;
2) il sacrificio dell'appartenenza all'Unione è criticabile, soprattutto quando possa provenire dall'influenza che gli organi comunitari subirebbero da poteri a-statuali economico-finanziari o d'altro genere. Ma l'UE è fondata in primis su ragioni di solidarietà (c.d. sussidiarietà), libertà (di circolazione, di lavoro, di stabilimento di impresa), cosmopolitismo (cittadinanza europea, non-discriminazione, uniformazione delle politiche della persona, del lavoro, dei diritti politici);
3) la Costituzione Italiana afferma il ripudio della violenza e l'assoggettamento al principio delle limitazioni di forza, autorità e volontà di potenza "necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni" (arg. ex  art. 11 Cost.). La critica alle politiche europee dovrebbe basarsi comunque sulla consapevolezza che l'Unione nasce e deve esistere come "Associazione Umanitaria".
Per il caso greco è più che fondato il dubbio che la coalizione direttamente coinvolta nei giochi di alternanza politica e pericolo di fallimento statale sia quella degli interessi economici transnazionali. E la questione non è di poco conto, considerando che dall'economia greca dipendono risparmiatori, lavoratori del pubblico impiego, sistemi di assistenza sociale, garanzie di sanità, servizi elementari e, infine, anche investitori con finalità speculative. Per questo la discussione elettorale sul ritorno alla dracma o sulla permanenza nella UE ha risvolti molto ampi e, purtroppo, intimidatori, ma, in tutto questo, la libera scelta elettorale del popolo greco dovrebbe incontrare l'unico limite (e preoccupazione) di compiere la scelta più adatta a conservargli, di fatto, quella libertà.
Sul piano comunitario, invece, occorre un fronte comune europeo, solidale, politico, istituzionale, un'azione normativa concordata per contrastare le aberrazioni di parte della finanza che rivaluta, in base al criterio dell'arricchimento personale, una possibile seconda Germania post-bellica in Grecia.
Non sarebbe ancora l'Europa di John Donne, quella tale che "se una zolla è strappata via dal mare, ne è diminuita...", ma in questo modo, il temuto Leviatano dell'Europa sarà un Leviatano buono.

sabato 16 giugno 2012

I nazisti a casa di Platone


Ripubblicazione, in occasione delle nuove elezioni del 17/6, dell'articolo del 19/5/2012

Qualcuno considererà irrilevante questo mio intervento. Irrilevante perché tardivo, dal momento che nuove elezioni e nuovi risultati si attendono per il prossimo 17 giugno. Irrilevante perché prematuro, dal momento che si denuncia anticipatamente una situazione ancora per nulla problematica. Ma, su un più ampio piano di riflessione, quel che si è profilato dal 6 maggio scorso è esattamente il risultato di uno scambio fra la democrazia delle libertà e lo stato di sicurezza che, in questa sua dimensione, non può non allarmare e riguardare ogni cittadino di qualsiasi nazione.




La Grecia è un Paese all'attenzione della cronaca. All'attenzione della cronaca perché è l'emblema della crisi economica; all'attenzione della cronaca per l'interesse dei creditori internazionali, interesse duplice: perché fallisca e perché non fallisca, uno strano caso in cui il principio di non-contraddizione non vale. Il Governo greco uscente ha trattato da poco le condizioni del debito con creditori, che hanno accettato una riduzione degli interessi per evitare l'insolvenza dello Stato da cui avrebbero perso l'intero capitale. Fra i creditori della Grecia, qualcuno, onesto speculatore, “ha scommesso” sul fallimento del debitore da cui avrebbe ricavato maggior profitto rispetto al banale incasso degli interessi su prestiti e titoli di Stato (d'altra parte, quando si tratta di profitto, solo qualche visionario è incapace di sano realismo...).
La Grecia, in sintesi – si scriveva qualche giorno fa su un quotidiano italiano – è “lo spauracchio che si agita ai Paesi europei” per ammonire: «Comportatevi bene o farete la fine della Grecia!».
D'altra parte, la Grecia partecipa pienamente di una situazione generale, europea, globale. Un intellettuale d'altri tempi avrebbe definito la Grecia l'incarnazione di una crisi della coscienza.
Il 6 maggio 2012, in Grecia, sono stati proclamati i risultati elettorali. I consensi del partito storico di centro-sinistra, il Pasok, al governo negli ultimi anni, sono precipitati dal 43% del 2009 al 13%; quelli di Nea Democratia, partito moderato di centro-destra europeo, dal 33,5% al 18,85%; Syriza, movimento di sinistra, dal 24,6 al 17%. Il KKE, il partito comunista ellenico, ha guadagnato un punto percentuale, ottenendo l'8,5% dei voti. Ma soprattutto, per la prima volta dopo la caduta del regime dei Colonnelli, la dittatura del periodo 1967-1974, i gruppi neo-nazisti sono entrati trionfalmente in Parlamento.
È ovvio che le nuove elezioni porteranno con sé un cambiamento (è bene convincersene).
Intanto, senza allarmismi esagerati, i nazisti sono entrati in casa di Platone. E qualcuno, prima che ogni tentativo di formare un Governo, per via della frammentazione politica, conducesse allo scioglimento della Camera, considerava seriamente la possibilità di includerli nell'esecutivo, perché (esperienze più vicine lo insegnano), quando si tratta di governare un Paese in crisi si accantonano le divergenze. Oppure, perché, quando si tratta di mantenere il primato del governo, ogni sostenitore è benvenuto: la giustificazione del potere diventa la sua conservazione.
Pochi hanno riconosciuto che l'ingresso trionfale dei nazisti in casa di Platone è il segno del progressivo scambio fra le libertà politico-civili e le false istanze di sicurezza, dietro cui si celano l'esaltazione del razzismo, del conflitto armato e della repressione delle minoranze. Pochi riconoscono che il furore delle soluzioni semplici e anti-libertarie rischi di diventare la risposta prediletta dal disagio sociale e dall'insofferenza generale.
Alba d'Oro, partito greco di estrema destra, ha conquistato quasi il 7% dei voti (nel 2009 contava lo 0,29%). Il segretario del partito si è affrettato a invocare il ritorno alla dracma e a reclamare mine anti-uomo anti-immigrati lungo i confini con la Turchia, aggiungendo tra l'altro: «Mi risulta che altri Paesi utilizzino i cannoni contro gli sbarchi clandestini...» (alcuni noteranno la triste assonanza con la frase «Qualcuno ricorda forse l'eccidio degli Armeni?»).
So che la situazione politica greca risente fortemente della crisi economica. In forza di questo, mi convinco che l'assistenza statale (sul piano giuridico) e la solidarietà civile (sul piano sociale) e non l'odio razziale, il culto del capo, la ricerca del capro espiatorio sono le soluzioni. La Grecia non è un caso isolato (si ricorda soltanto l'enorme successo di Marie Le Pen nelle recenti elezioni presidenziali francesi). Un “irrilevante” 7% non è irrilevante. Incorpora un forte impulso anti-liberale e anti-egualitario. Traduce in concreta possibilità di incidere sulla politica, e quindi sulla collettività e sulle libertà degli individui, le spinte irrazionali e repressive della dignità umana
Quando l'Europa ha conquistato il costituzionalismo ha aggiunto all'eredità greca della democrazia, il luogo in cui il popolo conta, quella della cultura democratica: ha riconosciuto nella libertà e nell'uguaglianza due valori intangibili.
La storia è la lineare dimostrazione del principio per cui la repressione dei diritti è questione quantitativa: una volta che la si rende possibile, va alla deriva. 
Basta creare un precedente. Tutto sta a iniziare. Si parte dall'assunto che “togliere un granello di sabbia al mucchio non fa la differenza”.
E quando rimangono pochi granelli, il mucchio non esiste più.

(Simone Risoli)

giovedì 14 giugno 2012

Musica e Poesia. Canzone quasi d'amore


Non starò più a cercare parole che non trovo
per dirti cose vecchie con il vestito nuovo,
per raccontarti il vuoto che, al solito, ho di dentro
e partorire il topo vivendo sui ricordi,
giocando con i miei giorni, col tempo.
O forse vuoi che dica che ho i capelli più corti
o che per le mie navi son quasi chiusi i porti.
Io parlo sempre tanto, ma non ho ancora fedi,
non voglio menar vanto di me o della mia vita,
costretta come dita dei piedi.
Queste cose le sai, perché siam tutti uguali
e moriamo ogni giorno dei medesimi mali,
perché siam tutti soli ed è nostro destino
tentare goffi voli d'azione o di parola,
volando come vola il tacchino.
Non posso farci niente e tu puoi fare meno,
sono vecchio d'orgoglio, mi commuove il tuo seno
e di questa parola io quasi mi vergogno;
ma c'è una vita sola, non ne sprechiamo niente
in tributi alla gente o al sogno.
Le sere sono uguali, ma ogni sera è diversa
e quasi non ti accorgi dell'energia dispersa
a ricercare i visi che ti han dimenticato,
vestendo abiti lisi, buoni a ogni evenienza
inseguendo la scienza o il peccato.
Tutto questo lo sai e sai dove comincia
la grazia o il tedio morte del vivere in provincia,
perché siam tutti uguali, siamo cattivi buoni
e abbiamo stessi mali, siamo vigliacchi e fieri,
saggi, falsi, sinceri coglioni.
Ma dove te ne andrai? Ma dove sei già andata?
Ti dono, se vorrai, questa noia già usata;
tienila in mia memoria, ma non è un capitale,
ti accorgerai da sola (nemmeno dopo tanto)
che la noia di un altro non vale.
D'altra parte, lo vedi, scrivo ancora canzoni
e pago la mia casa, pago le mie illusioni,
fingo d'aver capito che vivere è incontrarsi,
aver sonno, appetito, far dei figli, mangiare,
bere, leggere, amare, grattarsi...

(F. Guccini, da Via Paolo Fabbri 43 )

martedì 12 giugno 2012

Il discorso sul PIL all'Università del Kansas


"Non troveremo mai un fine per la nazione né una nostra personale soddisfazione nel mero perseguimento del benessere economico, nell’ammassare senza fine beni terreni.
Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del prodotto nazionale lordo (PIL).
Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.
Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari.
Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti.
Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi. Il Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Può dirci tutto sull’America, ma non se possiamo essere orgogliosi di essere Americani".


(Il 18 marzo 1968, Robert Kennedy si rivolse agli studenti dell'Università americana del Kansas con questo discorso, in cui si affrontava senza riserve pregiudiziali un argomento delicato per la Nazione simbolo del liberalismo, dell'intraprendenza imprenditoriale e dello sviluppo economico. 
Rileggendo con umiltà il discorso pronunciato da Kennedy, si deve notare l'enfasi posta sui concetti di solidarietà e qualità della vita sociale, sulla crescita intellettuale e culturale, sull'allontanamento dalla natura nella sua proverbiale ferinità e l'avvicinamento a una soluzione altruistica. 
Robert Kennedy era un moderato cittadino statunitense, vissuto nella cultura liberale del suo Paese, con una reviviscenza di istanze riformiste che caratterizzano lo spirito del costituzionalismo americano. Pochi mesi dopo l'intervento fu assassinato).

venerdì 8 giugno 2012

Apriamo la questione ambientale!


Aprire le questioni aperte è una scelta tautologica? 
L’evoluzione biologica del genere umano offre la particolarità di essere stata storicamente affiancata da una sua "evoluzione culturale". Culturalmente non si può escludere (come è verificabile) il progresso delle popolazioni, che si manifesta chiaramente in ambito tecnologico ed economico e, anzi, rende attuale la discussione sulla “crescita” (termine improprio) delle popolazioni.
Superati alcuni limiti, o rischiando di rasentarli, ai concetti di continua "crescita" e "progresso" si richiede di associare quello di "sostenibilità".
Per ecosostenibilità si intende una forma di sviluppo (comprendente quello economico, urbanistico, delle comunità) che non compromette la possibilità delle future generazioni di perdurare (nella crescita, ma innanzitutto come specie esistente), preservando la qualità e la quantità del patrimonio e delle riserve naturali (che sono esauribili). L'obiettivo è di mantenere uno sviluppo economico compatibile con l'equità sociale e gli ecosistemi: è necessario operare, quindi, in regime di equilibrio.
L’invito prosegue, dunque, in questa direzione: concepire lo sviluppo sostenibile non tanto come un vincolo dogmatico e surreale cui attenersi, quanto come constatazione e consapevolezza dell’im-possibilità di un prelievo illimitato delle risorse, delle quali viene confutata l’inesauribilità.
Per queste ragioni, tale tipo di “sviluppo atipico”, che i criteri tradizionali di crescita (il PIL, ad esempio) misurano negativamente, non si può considerare una misura restrittiva o reazionaria, bensì un approccio razionale e innovativo alla società, alla politica, all’economia.
Se la questione merita di essere affrontata, dopo essere stata timidamente aperta o ideologizzata o demonizzata invocando il benessere sinonimo di tecnologia e di accrescimento sconsiderato (riflesso sul piano collettivo-consumistico dell'idea egoistica di appropriazione), la ragione è duplice: è necessario ed è razionale.

I presupposti teorici: la questione ambientale come rivoluzione morale.
Razionalmente la questione è urgente e delicata. Urgente, perché la soluzione fra crescita irrazionale ed ecosostenibile non è rimandabile: si tratta di valutare comparativamente, come su una bilancia, la sopravvivenza delle specie della Terra (tra cui il genere umano) e lo sviluppo economico secondo le tendenze attuali. Delicata, perché la scelta pone in termini specifici un dualismo più generale e astratto, ovvero quello della scelta morale e sociale fra egoismo e convivenza, tema che rischia di essere politicamente eluso, mentre si riflette (e quindi dovrebbe essere affrontato) almeno su tre piani: ambiente (appunto), lavoro, previdenza (o, più ampiamente, assistenza) sociale.
Proprio questi temi, fra altri, sono forse criterio di misura di una nuova libertà morale, perché si sviluppano nella dimensione della inter-temporalità: riguardano la co-esistenza fra individui (nello spazio) e fra generazioni di individui (nel tempo); permettono di interrogarsi sulla moralità della propria azione in base agli effetti che essa produce in relazione alla totalità degli uomini, in ogni tempo.

(Simone Risoli)

martedì 5 giugno 2012

Una poesia di T.S. Eliot

 












Aprile è trascorso da tempo.
Esordire con La terra desolata ("Aprile è il mese più crudele...") sarebbe filologicamente esatto per introdurre un poeta fra i più grandi innovatori e tradizionalisti del secolo scorso. Forse davvero - dopo Eliot o insieme a Eliot o anche attraverso Eliot - la poesia ha assunto un volto nuovo, sfregiato dal dissacrante e dall'orrido, inghirlandato di raffinatezza e sottigliezze intellettuali; per certi versi un esercizio di ingegno (così si diceva dei poeti metafisici inglesi cinquecenteschi, modello di riferimento per T.S.Eliot), per altri la perfetta adesione della poesia alla genetica, perché la forma della poesia diventa il fenotipo (la manifestazione esterna), laddove il contenuto è genotipo (il codice genetico). 
Al di là di questo, una poesia di Eliot - che l'autore stesso interpretava come sinfonia che può essere ascoltata procurando piacere all'orecchio senza coinvolgere, al primo ascolto, l'analisi e l'approfondimento -può essere un buon tentativo di approccio. 

La figlia che piange

O quam te memorem virgo...
Fèrmati sul piano più alto delle scale -
Appoggiati a un'anfora da giardino -
Tessi, tessi la luce del sole nei tuoi capelli - 
Stringi contro di te i tuoi fiori con una sorpresa dolente,
gettali a terra e voltati
con un furtivo risentimento negli occhi:
ma tessi, tessi la luce del sole nei tuoi capelli - 

Così avrei voluto che lui partisse,
così avrei voluto che lei restasse e soffrisse,
così lui sarebbe partito,
come l'anima lascia il corpo lacerato e livido,
come la mente diserta il corpo che ha usato.
Troverei
un modo incomparabilmente lieve e agile,
un modo che entrambi intenderemmo,
semplice e infedele, come un sorriso o una stretta di mano.

Lei si voltò, ma con la stagione autunnale
provocò la mia immaginazione per molti giorni,
molti giorni e molte ore:
i suoi capelli sulle sua braccia e le sue braccia coperte di fiori.
E mi chiedo come sarebbero stati, insieme!
Avrei perso un gesto e una posa.
A volte queste riflessioni sorprendono ancora
la mezzanotte inquieta e il mezzogiorno che riposa.


(T.S.Eliot)

sabato 2 giugno 2012

Fedro



Sai che, non fosse polvere e tempesta,
avrebbe la durezza del diamante 
lo stesso sangue che ci corre l'anima;
sai che, non fosse neve a livellare
la terra, sarebbe la forza
delle nostre gracili giovinezze.
Sulla collina di Spoon River un corpo
disperso cercava l'anima a un falco
e le cercava un fremito fraterno.


Fedro, fedele fremito fraterno 
fra le fronde del niente,
speravo qualche anno di tubercolosi
spartiti tra te e me;
ma io che ho dato per ricevere il possesso 
di quel che non possiedo?
Non ti avrei chiesto mai la mano
perché mi avresti impedito
di perforare la tua consuetudine.

E allora imparavo a leggere
il linguaggio dell'Universo
in parole sussurrate.
Forse è questa la mia follia,
ma anch'io cerco sulla collina di Spoon River.

(Simone Risoli, 26 agosto '11 - 24 aprile '12)