sabato 31 marzo 2012

Io penso

Riflessioni ultime

Io penso che la cultura politica in questo Paese stia cambiando, ma debba cambiare ancora.
Io penso che la crisi economica attuale non possa non richiedere un grande sacrificio comune, una limitazione, una revisione del proprio stile di vita.
Io credo che molti obiettivi imposti dalla “austerità” si sarebbero dovuti fissare e raggiungere gradualmente in passato: l'eliminazione dei privilegi, le riforme, il ripensamento dell'economia, la "lotta" all'evasione fiscale, la riscossa del “bene comune”.
Io temo che il concetto di “bene comune” possa essere frainteso. Io penso che il bene comune non debba essere il mezzo per giustificare un fine, ma il fine a cui tendere incessantemente. Penso che usare il “bene comune” come legittimazione universale non sia “bene comune”, ma un suo utilizzo strumentale.
Io penso che la democrazia sia un'invenzione geniale, ma che non funzioni senza l'offerta della concreta possibilità, a tutti, di partecipare. Penso che la democrazia sia una geniale invenzione, ma penso anche che l'unica democrazia attuale sia la democrazia sociale. Io penso che lo Stato sociale sia l'offerta, a chiunque, di potersi avvalere di uguali possibilità di partenza. Io penso che lo Stato sociale ponga gli uomini su un livello uguale di disposizione delle proprie abilità, che offra a ciascuno la facoltà di esprimere le proprie capacità, lasciando ai singoli il diritto di affermarle e la responsabilità di valutarle.
Al contrario, sono convinto che lo Stato a-sociale sia l'elevazione a sistema della natura egoistica dell'uomo. Penso che la cultura liberale, che la nostra Costituzione accoglie, non sia l'affermazione dell'onnipotenza dell'individuo sugli altri, ma il principio che fa convivere la libertà personale con quella altrui: penso che quanto più l'individuo è consapevole delle sue potenzialità, tanto più ammetterà e riconoscerà la stessa “onnipotenza” negli altri individui.
Io non penso che ciò che penso sia in contrasto con l'arcano concetto di “meritocrazia”. Io penso che il padre che sfama i figli fortunati e quelli sfortunati allo stesso modo non stia compiendo un innaturale atto di omologazione. Io penso che la garanzia di alcuni diritti non sia una “livellazione artificiale” e contro natura, ma che, se anche non esistono diritti innati, naturali, inalienabili degli uomini e delle donne, a maggior ragione è atto di grande civiltà che lo Stato e i cittadini si impegnino liberamente a CREARLI da sé.
Io non credo nell'omologazione, ma penso che nessuno possa esprimere la sua “grandezza” se è condannato a restare confinato nella “piccolezza”. Io penso che, prima di concludere fra due atleti quale sia il migliore, sia necessario almeno che l'uno e latro partano dalla stessa linea.
Io penso che l'istruzione sia l'angolazione della Terra da cui si osservano le abilità personali. Io so che l'istruzione è l'offerta di pari strumenti e pari condizioni iniziali e che l'intraprendenza, il talento, l'ingegno sono il modo con cui ciascuno, diversamente, ne dispone. Io penso che lasciare all'economia, alla condanna dell'immobilismo sociale, ai soli fattori esterni alle proprie capacità la determinazione della posizione sociale sia l'esatta negazione della meritocrazia.
Io non penso che la giustizia sociale debba essere di destra o di sinistra.
Non penso che l'attuale Governo sia per nascita un “governo dei poteri forti”, perché coloro che lo affermano dimenticano che ogni classe politica esprime “interessi” di classe, più o meno forti; ma penso che la politica, per sua natura, sia responsabile per le sue scelte anche delle conseguenze che non aveva previsto o, addirittura, aveva escluso.
In concreto, io penso che riformare l'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori in modo da impedire la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore licenziato illegittimamente anche per (presunti) motivi economici paventi un rischio, instilli un dubbio: che fra due “interessi”, fra capitale e lavoro (come era d'uso qualche anno fa), la PERSONA del lavoratore possa essere considerata un "fattore di produzione". Io penso che, se anche questo Governo non intende promuovere affatto una simile idea, il rischio esista. Io penso che le migliaia di persone impiegate in società e imprese colpite dalla crisi potrebbero diventare il referente linguistico di quella espressione infelice ma efficace: «carne da macello».
Io credo che gravare sulle pensioni di certi lavoratori sia un attacco allo Stato sociale, perché il sistema previdenziale, per quei lavoratori, non è solo un criterio di uguaglianza sostanziale, ma anche un elemento di certezza psicologica, una rassicurazione, una aspettativa legittima.
Io penso tutto questo, e non penso di essere fazioso: penso che pensare alla «carne da macello» degli operai e dei lavoratori con solidarietà non sia faziosità, ma UMANITÀ.
Io penso tutto questo – e ammetto di essere pessimista. Ma voglio anche pensare a una soluzione alternativa. Voglio pensare «a un mondo nuovo e a una speranza appena nata».
Voglio pensare che «se Dio muore è per tre giorni, e poi risorge».

Intermezzo

Ringrazio i lettori che in qualunque forma hanno deciso di aderire al manifesto di questo blog.
Approfitto di questo intermezzoper rassicurare chi mi segue contro eventuali ritardi. D'altra parte, il progetto è ambizioso e, ad oggi, gestito da una sola persona. Se al momento è stato lasciato più spazio alla letteratura e si è trascurato il resto, si rimedierà presto. In ogni caso, spero che si sia colto lo spirito "cosmopolita", che volutamente non intende confinare ciascuna materia in un suo ambito specifico: la poesia è mezzo di riflessione, non solo forma estetica; la filosofia è critica sociale e della realtà, è metodo applicabile, non solo scienza elitaria o sofisma; la politica è partecipazione alle scelte collettive, non solo biografia del potere o ideologia (nell'accezione negativa in cui si può usare il termine). In questo senso, credo che esista un legame inscindibile fra i diversi ambiti che potremmo definire humanitas, ovvero interesse per tutto ciò che è umano, il quale spesso impone una trattazione unitaria. Alcuni temi, tuttavia, meritano un approfondimento particolare e saranno affrontati distintamente, in rubriche autonome, alcune delle quali già note ai lettori. 

mercoledì 28 marzo 2012

L'estate di Tabucchi

Conobbi Antonio Tabucchi nell'estate del 2008, fra diverse carte. Lo conobbi – in verità – per via indiretta. Anzi, per essere precisi, non conobbi proprio lui, ma Pereira.
Incontrai quel personaggio a prima vista serioso ma impacciato, intento a divorare omelette alle erbe e a consumare quantità spropositate di limonata («metà limone, metà zucchero...»). Lo incontravo spesso nella redazione portoghese del giornale di cui curava la pagina culturale, a Lisbona nell'abituale bar, a casa a dialogare col ritratto della moglie defunta. Pereira mi sembrava il classico uomo abitudinario, vissuto fra dolori e soddisfazioni ordinarie, senza grandi ambizioni e in cerca di tranquillità. Scriveva necrologi anticipati di grandi scrittori. Temeva – come già era successo – che la morte di un grande letterato potesse cogliere impreparata la stampa, costretta a intrecciare frettolosamente qualche riga di articolo per riportare la notizia.
Incomprensibilità dell'esistenza: proprio tre giorni fa per il letterato padre di Pereira – non io dovrei aggiungere aggettivi – nessun necrologio anticipato era pronto. Il giorno seguente, invece, sulle pagine di alcuni giornali sono comparse le testimonianze degli amici Tabucchi, fra cui quella di Stefano Benni e di altri.
Non ho conosciuto Antonio Tabucchi. Tuttavia, credo di aver conosciuto attraverso l'incontro con Pereira una sua parte, quella – magra consolazione per chi soffre la sua assenza – che resta. 
Consolazione insufficiente? Non vorrei rispondere, per evitare di sembrare retorico.
Pereira – ho riletto in questi giorni alcune pagine e ripreso qualche scena del film – era un uomo insicuro che doveva mostrarsi degno della sua posizione in società: responsabile della pagina culturale del Lisboa, fine conoscitore della letteratura. Dopo anni di cronaca, aveva conquistato quel baluardo di tranquillità.
Pereira era convinto che essere un fine conoscitore di letteratura lo avrebbe reso sereno e rispettabile. Ma l'incontro con Monteiro Rossi, giovane idealista legato ai repubblicani che in Spagna stanno combattendo la guerra civile, «un incosciente o un provocatore», turba la sua “tranquillità di esili certezze”. A Pereira non interessa la giustizia; a Pereira non interessano le «ragioni del cuore»: non si è mai interrogato in proposito. Ma conosce il giovane, a cui chiede di collaborare come praticante al giornale; lo paga personalmente, pur non pubblicandone mai i necrologi troppo sovversivi; si lega affettivamente a lui, non lo allontana in nessun modo, nonostante le sue idee gli procurino qualche turbamento.
L'inspiegabile sensazione che gli suscitano questi fatti – una commistione di comprensione e di consapevolezza della propria inadeguatezza – lo induce a ricredersi.
Pereira non raccontava i suoi sogni ad alcuno: il padre gli aveva insegnato che i sogni sono la più privata parte della propria persona; dopo l'incontro con il giovane, frequenta il dottor Cardozo, psicanalista avanguardista, e risponde alle sue domande sull'intimità dei suoi sogni.
Il dottor Cardozo lo spinge a completare da sé il cambiamento: «lei ha bisogno di elaborare un lutto, ha bisogno di dire addio alla sua vita passata, ha bisogno di vivere nel presente, un uomo non può vivere come lei, dottor Pereira, pensando solo al passato». Già Monteiro Rossi lo aveva ammonito durante il primo incontro. «Conosce la morte?», aveva domandato Pereira. «Lei mi chiede di parlare di morte, ma io amo la vita», aveva replicato il giovane.
Pereira usava affermare di occuparsi soltanto di letteratura, non di politica. Le nuove frequentazioni gli mostrano la realtà in toto: le mistificazioni del regime di Salazar che si sta instaurando in Portogallo, le atrocità del fascismo, il servilismo della cultura e degli intellettuali, il tentativo di sopprimere la verità.
«La letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità». È tempo – comprende Pereira – che la letteratura, cioè il suo ruolo di letterato, la sua modesta posizione  nel contesto sociale, le sue potenzialità, le sue possibilità non restino confinate nell'astrazione, che lui stesso muti radicalmente, abbandonando la normalità, la passività.
La libertà, la giustizia non sono monopolio della politica di cui la letteratura - secondo il vecchio Pereira - non si deve occupare. Esiste una responsabilità intellettuale di intervenire secondo le proprie capacità: questo ha compreso da quando un nuovo «Io dominante» prevale nella sua «confederazione di anime».
Così, non a torto sostengo che, per essere precisi, non conobbi proprio Antonio Tabucchi, ma Pereira. E cioè che non ho conosciuto Antonio Tabucchi, ma credo di aver conosciuto attraverso l'incontro con Pereira una sua parte, quella – magra consolazione per chi soffre la sua assenza – che resta.

(Sostiene Pereira, regia R. Faenza)

domenica 25 marzo 2012

Uomini senza morte

Inauguro in modo anomalo la sezione dedicata ai componimenti inediti che ho scritto negli ultimi anni. L'anomalia apparente consiste nel genere scelto, poco rappresentativo della poesia per chi crede che essa possa essere soltanto distante dal mondo, sconnessa rispetto alla realtà sociale. Lontanissima ogni retorica.  

Uomini senza morte


A Falcone e Borsellino,
agli uomini senza morte
che chiedono ragione e cercano giustizia per essere liberi.

E parliamo noi
che quotidianamente moriamo
e che quando temiamo la fine
siamo già nati morti.
Parliamo quando è bene parlare,
pensiamo quando è giusto pensare.
Scorgiamo gli agrumeti da vent’anni
tingersi di sangue
e il sangue si chiede la ragione,
e noi restiamo in silenzio.

E agli antipodi del mondo distante e tranquillo
aspetta quello di uomini dentro il cemento,
di uomini incauti nell’acido
per l’illusione che una terra atavica
respinga la fionda,
perché un singolo respiro
non sia costante concessione.

Forse perché muore giovane
chi è caro agli dèi,
e allora muore in fretta
chi è giusto fra gli uomini.

Ma continuerò finché spoglia
d’ogni pensiero poetante
strascicherò dissanguata la sola verità:
son uomini che uccidono altri uomini,
è il silenzio che assassina il pensiero
e la libertà di pensare;
è l’odio, il rancore,
è una natura ferina che noi
scientemente scegliamo,
chiamando i morti giusti,
condannando i vivi
e serrando le fauci,
finché non le forza il dolore.

4 agosto 2010

(Simone Risoli)

giovedì 22 marzo 2012

Nostro padre, Odisseo


L'Odissea è il viaggio. Odisseo (o Ulisse) è «l'uomo che a lungo vagò», l'esploratore di terre sconosciute, il mortale che rifiuta la promessa di immortalità offerta da Circe per continuare il suo vagabondaggio. Odisseo è l'individuo che sfida i limiti umani, imposti dagli dèi e dalla natura, oltrepassando le Colonne d'Ercole per sete di conoscenza. A chi gli rimprovera la follia, il delirio, l'aver condotto alla morte i suoi compagni navigatori, Odisseo non esita a rispondere, per mano di Dante):
«Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza»
(Inferno XXVI)
Odisseo non ha navigato interminabilmente solo per il Mediterraneo. Il mito di Ulisse ha solcato secoli di immaginario comune e, come fosse creatura vivente, ha subito la forza dell'evoluzione. Nei mille e mille anni di vita ha conservato i suoi caratteri essenziali (l'astuzia, il desiderio di conoscenza, la continua ricerca) e ne ha acquistati altri.
L'Ulisse romantico – quello di Foscolo, ad esempio – è l'eroe senza meta, l'eterno viandante senza scopo, al punto che il suo viaggio perde anche il senso della scoperta. Odisseo-Ulisse è «bello di fama e di sventura»: ha il fascino dell'uomo anti-convenzionale che combatte la sorte avversa.
L'Ulisse del Novecento – il nostro padre naturale – è certamente un Ulisse più "umano".
Chi consolava Penelope nelle notti insonni? Quanto ha sofferto Telemaco la lontananza, l'indifferenza nei suoi confronti del padre che a lui preferì il viaggio? Nessun tentennamento, mai un ripensamento ha assalito Ulisse? A queste domande, ovviamente, si può rispondere in modo semplice: il viaggio di Ulisse, la speranza di Penelope, la fedeltà di Telemaco hanno un valore simbolico. Dall'altra parte, possono diventare spunto di riflessione e sono punto di partenza per scoprire un Odisseo incerto, fallibile, dubbioso, sensibile, imperfetto.
L'Ulisse del Joyce – il nostro padre naturale – non vaga per anni, per terre e per mari: la sua Odissea si esaurisce in una giornata. Il dolore, la gioia, il piacere, la fatica si comprimono in ventiquattro ore. In un solo giorno attraversa Dublino, le vie conosciute, raggiunge l'ufficio, il giornale, si unisce al corteo funebre, mangia i rognoni (di cui è grande amatore), torna a casa stanco, verso sera, per riposare. L'Ulisse di Omero sperimenta la morte scendendo nel Regno dei defunti (l'Ade), quello di Joyce partecipando a un funerale; la “vecchia” Penelope ha la fermezza inossidabile e una forza quasi inumana: ogni giorno tesse la tela che di notte disfa, fino al ritorno dello sposo. La “nuova” Penelope (Molly Bloom) si abbandona ai ricordi, ai monologhi, al flusso sconnesso della coscienza. Ma, non per questo sono sconfitti – al contrario.
Odisseo è la somma dei suoi anni; è pur sempre l'ambizione, l'anelito di conoscenza, la tensione al perfezionamento. Ma sua eredità è più ricca. Accettarla significa pensare all'uomo nella sua completezza: la debolezza e l'ardore, la vittoria e la sconfitta, il quotidiano, la storia, l'eterno. Significa pensare le piccole e le grandi cose e, spesso, come insegna Joyce, le piccole grandi.
Esiste il Tempo, esiste la Storia? O esistono gli istanti, le azioni, i momenti particolari? O esistono entrambi, ciascuno di per sé? La delusione di un momento oscura la promessa del futuro; l'ideale è il faro che illumina questa azione. Esiste la Bellezza o esistono i pomeriggi soleggiati, il cielo stellato, le piramidi, la "Gioconda" di Leonardo, "L'Infinito" di Leopardi, il volto di una persona? 
Di Odisseo “antico” deve sopravvivere il desiderio di spingersi oltre. Di Odisseo “nuovo” deve restare la dimensione umana, finita. «Dobbiamo star fermi e fermi muoverci / in un'altra intensità / per una ulteriore unione […] ». (T.S. Eliot, da East Coker)
Accettare l'eredità di Odisseo, oggi, credo significhi riconoscere il conflitto, ma, ancor prima, il limite dell'uomo.

lunedì 19 marzo 2012

Nostos

Il mare,
gli scogli dispersi
e le coste lontane d’Iberia
le solitarie rocce sparse di schiuma
il vento debole e forte
di giorno in giorno diverso;
e un odore uguale per le strade
il porto veloce e i marinai
le navi attraccate il cemento il venditore
impregnato di pesce
l’asfalto caldo
e quelle solitarie rocce costruite
e ancora quelle sempre uguali.

Il mare,
il porto rinato e le navi attraccate
e rocce e ostacoli sempre nuovi.
E non più la certezza di morte
dove nera terra si affaccia alla mia terra,
ma il mare danzante
là dove finisce il mondo,
e le àncore e le navi attraccate,
ognuna a quel che resta fermo.
Poi ancora indifferente il mare,
e quel senso infinito insidiato da un altro.

Come una nuova coltre di nubi
il mare,
eppure sempre lo stesso,
e i sentieri sul molo lo inseguono
e lo fuggono.
È nuovo tempo di grandi imprese.
L’oceano è l’istante,
nell’ombra viaggio verso il sole,
nel Tartaro e di ritorno,
in cerca oltre il mare d’Itaca lontana
e poi di coste annebbiate senza luogo,
giorno per giorno.

13 luglio 2010

(da L'esistenza è il giorno,  Simone Risoli)

domenica 18 marzo 2012

Benvenuto ai lettori


Gentile venticinquesimo lettore,

esprimersi in modo chiaro e breve spesso è difficile.
Questo è un blog che vorrebbe diventare sito di incontro fra opinioni discordanti. A partire da interpretazioni, visioni e considerazioni personali sull'attualità, la cultura, i “sentimenti umani”, questo blog vorrebbe essere la “via della povertà”, il luogo cui tutti i partecipanti siano ugualmente poveri, perché ugualmente disposti a offrire il proprio contributo senza nulla da perdere.
Ora, “via della povertà” è una metafora che nella realtà offre due volti: è l'idealizzazione del mondo, ma è anche il mondo. Esiste una “via della povertà” reale, che è disperazione individuale, ingiustizia sociale, disagio universale, incomunicabilità, violenza. Esistono la discriminazione, la disuguaglianza, la repressione. Non per questo si dovrebbe abbandonare qualunque mezzo di reazione. Non esiste una “via della povertà” idealizzata e data che sia felicità assoluta, perfezione, armonia; non esistono Atlantide, il Regno dei Giusti, l'Eden, l'Iperuranio in questo mondo. Esistono però alcune creazioni umane che si chiamano “consapevolezza”, “riflessione”, “dubbio”, “conoscenza”, “critica”, “confronto”,
“azione”. Esistono ideali. Esiste la coscienza che questo mondo non è Atlantide, ma anche la convinzione che, se questo mondo non è Atlantide, ciò non vuol dire che non dobbiamo provare a farcelo assomigliare. Proviamo, in piccolo, a sviluppare questa idea.
Abbiamo un limite ideale a cui possiamo sperare di tendere. Quel limite è quantomai impreciso, indeterminato e instabile. Dobbiamo provare a fissarlo quanto più in alto possibile ed essere anche pronti a spostarlo. E, soprattutto – mi perdonerai l'immensa ambizione –, provare insieme ad avvicinarci.

Simone Risoli