giovedì 22 marzo 2012

Nostro padre, Odisseo


L'Odissea è il viaggio. Odisseo (o Ulisse) è «l'uomo che a lungo vagò», l'esploratore di terre sconosciute, il mortale che rifiuta la promessa di immortalità offerta da Circe per continuare il suo vagabondaggio. Odisseo è l'individuo che sfida i limiti umani, imposti dagli dèi e dalla natura, oltrepassando le Colonne d'Ercole per sete di conoscenza. A chi gli rimprovera la follia, il delirio, l'aver condotto alla morte i suoi compagni navigatori, Odisseo non esita a rispondere, per mano di Dante):
«Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza»
(Inferno XXVI)
Odisseo non ha navigato interminabilmente solo per il Mediterraneo. Il mito di Ulisse ha solcato secoli di immaginario comune e, come fosse creatura vivente, ha subito la forza dell'evoluzione. Nei mille e mille anni di vita ha conservato i suoi caratteri essenziali (l'astuzia, il desiderio di conoscenza, la continua ricerca) e ne ha acquistati altri.
L'Ulisse romantico – quello di Foscolo, ad esempio – è l'eroe senza meta, l'eterno viandante senza scopo, al punto che il suo viaggio perde anche il senso della scoperta. Odisseo-Ulisse è «bello di fama e di sventura»: ha il fascino dell'uomo anti-convenzionale che combatte la sorte avversa.
L'Ulisse del Novecento – il nostro padre naturale – è certamente un Ulisse più "umano".
Chi consolava Penelope nelle notti insonni? Quanto ha sofferto Telemaco la lontananza, l'indifferenza nei suoi confronti del padre che a lui preferì il viaggio? Nessun tentennamento, mai un ripensamento ha assalito Ulisse? A queste domande, ovviamente, si può rispondere in modo semplice: il viaggio di Ulisse, la speranza di Penelope, la fedeltà di Telemaco hanno un valore simbolico. Dall'altra parte, possono diventare spunto di riflessione e sono punto di partenza per scoprire un Odisseo incerto, fallibile, dubbioso, sensibile, imperfetto.
L'Ulisse del Joyce – il nostro padre naturale – non vaga per anni, per terre e per mari: la sua Odissea si esaurisce in una giornata. Il dolore, la gioia, il piacere, la fatica si comprimono in ventiquattro ore. In un solo giorno attraversa Dublino, le vie conosciute, raggiunge l'ufficio, il giornale, si unisce al corteo funebre, mangia i rognoni (di cui è grande amatore), torna a casa stanco, verso sera, per riposare. L'Ulisse di Omero sperimenta la morte scendendo nel Regno dei defunti (l'Ade), quello di Joyce partecipando a un funerale; la “vecchia” Penelope ha la fermezza inossidabile e una forza quasi inumana: ogni giorno tesse la tela che di notte disfa, fino al ritorno dello sposo. La “nuova” Penelope (Molly Bloom) si abbandona ai ricordi, ai monologhi, al flusso sconnesso della coscienza. Ma, non per questo sono sconfitti – al contrario.
Odisseo è la somma dei suoi anni; è pur sempre l'ambizione, l'anelito di conoscenza, la tensione al perfezionamento. Ma sua eredità è più ricca. Accettarla significa pensare all'uomo nella sua completezza: la debolezza e l'ardore, la vittoria e la sconfitta, il quotidiano, la storia, l'eterno. Significa pensare le piccole e le grandi cose e, spesso, come insegna Joyce, le piccole grandi.
Esiste il Tempo, esiste la Storia? O esistono gli istanti, le azioni, i momenti particolari? O esistono entrambi, ciascuno di per sé? La delusione di un momento oscura la promessa del futuro; l'ideale è il faro che illumina questa azione. Esiste la Bellezza o esistono i pomeriggi soleggiati, il cielo stellato, le piramidi, la "Gioconda" di Leonardo, "L'Infinito" di Leopardi, il volto di una persona? 
Di Odisseo “antico” deve sopravvivere il desiderio di spingersi oltre. Di Odisseo “nuovo” deve restare la dimensione umana, finita. «Dobbiamo star fermi e fermi muoverci / in un'altra intensità / per una ulteriore unione […] ». (T.S. Eliot, da East Coker)
Accettare l'eredità di Odisseo, oggi, credo significhi riconoscere il conflitto, ma, ancor prima, il limite dell'uomo.

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