mercoledì 28 marzo 2012

L'estate di Tabucchi

Conobbi Antonio Tabucchi nell'estate del 2008, fra diverse carte. Lo conobbi – in verità – per via indiretta. Anzi, per essere precisi, non conobbi proprio lui, ma Pereira.
Incontrai quel personaggio a prima vista serioso ma impacciato, intento a divorare omelette alle erbe e a consumare quantità spropositate di limonata («metà limone, metà zucchero...»). Lo incontravo spesso nella redazione portoghese del giornale di cui curava la pagina culturale, a Lisbona nell'abituale bar, a casa a dialogare col ritratto della moglie defunta. Pereira mi sembrava il classico uomo abitudinario, vissuto fra dolori e soddisfazioni ordinarie, senza grandi ambizioni e in cerca di tranquillità. Scriveva necrologi anticipati di grandi scrittori. Temeva – come già era successo – che la morte di un grande letterato potesse cogliere impreparata la stampa, costretta a intrecciare frettolosamente qualche riga di articolo per riportare la notizia.
Incomprensibilità dell'esistenza: proprio tre giorni fa per il letterato padre di Pereira – non io dovrei aggiungere aggettivi – nessun necrologio anticipato era pronto. Il giorno seguente, invece, sulle pagine di alcuni giornali sono comparse le testimonianze degli amici Tabucchi, fra cui quella di Stefano Benni e di altri.
Non ho conosciuto Antonio Tabucchi. Tuttavia, credo di aver conosciuto attraverso l'incontro con Pereira una sua parte, quella – magra consolazione per chi soffre la sua assenza – che resta. 
Consolazione insufficiente? Non vorrei rispondere, per evitare di sembrare retorico.
Pereira – ho riletto in questi giorni alcune pagine e ripreso qualche scena del film – era un uomo insicuro che doveva mostrarsi degno della sua posizione in società: responsabile della pagina culturale del Lisboa, fine conoscitore della letteratura. Dopo anni di cronaca, aveva conquistato quel baluardo di tranquillità.
Pereira era convinto che essere un fine conoscitore di letteratura lo avrebbe reso sereno e rispettabile. Ma l'incontro con Monteiro Rossi, giovane idealista legato ai repubblicani che in Spagna stanno combattendo la guerra civile, «un incosciente o un provocatore», turba la sua “tranquillità di esili certezze”. A Pereira non interessa la giustizia; a Pereira non interessano le «ragioni del cuore»: non si è mai interrogato in proposito. Ma conosce il giovane, a cui chiede di collaborare come praticante al giornale; lo paga personalmente, pur non pubblicandone mai i necrologi troppo sovversivi; si lega affettivamente a lui, non lo allontana in nessun modo, nonostante le sue idee gli procurino qualche turbamento.
L'inspiegabile sensazione che gli suscitano questi fatti – una commistione di comprensione e di consapevolezza della propria inadeguatezza – lo induce a ricredersi.
Pereira non raccontava i suoi sogni ad alcuno: il padre gli aveva insegnato che i sogni sono la più privata parte della propria persona; dopo l'incontro con il giovane, frequenta il dottor Cardozo, psicanalista avanguardista, e risponde alle sue domande sull'intimità dei suoi sogni.
Il dottor Cardozo lo spinge a completare da sé il cambiamento: «lei ha bisogno di elaborare un lutto, ha bisogno di dire addio alla sua vita passata, ha bisogno di vivere nel presente, un uomo non può vivere come lei, dottor Pereira, pensando solo al passato». Già Monteiro Rossi lo aveva ammonito durante il primo incontro. «Conosce la morte?», aveva domandato Pereira. «Lei mi chiede di parlare di morte, ma io amo la vita», aveva replicato il giovane.
Pereira usava affermare di occuparsi soltanto di letteratura, non di politica. Le nuove frequentazioni gli mostrano la realtà in toto: le mistificazioni del regime di Salazar che si sta instaurando in Portogallo, le atrocità del fascismo, il servilismo della cultura e degli intellettuali, il tentativo di sopprimere la verità.
«La letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità». È tempo – comprende Pereira – che la letteratura, cioè il suo ruolo di letterato, la sua modesta posizione  nel contesto sociale, le sue potenzialità, le sue possibilità non restino confinate nell'astrazione, che lui stesso muti radicalmente, abbandonando la normalità, la passività.
La libertà, la giustizia non sono monopolio della politica di cui la letteratura - secondo il vecchio Pereira - non si deve occupare. Esiste una responsabilità intellettuale di intervenire secondo le proprie capacità: questo ha compreso da quando un nuovo «Io dominante» prevale nella sua «confederazione di anime».
Così, non a torto sostengo che, per essere precisi, non conobbi proprio Antonio Tabucchi, ma Pereira. E cioè che non ho conosciuto Antonio Tabucchi, ma credo di aver conosciuto attraverso l'incontro con Pereira una sua parte, quella – magra consolazione per chi soffre la sua assenza – che resta.

(Sostiene Pereira, regia R. Faenza)

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