mercoledì 11 aprile 2012

L'«orgoglio» leghista

Considerazioni sociologiche?

Le “dimissioni” di Umberto Bossi, la “cacciata” dei fedelissimi, la “ritirata” dei coinvolti (politicamente, bisogna precisarlo) negli ultimi affari sono senz’altro scene a cui la politica non era abituata da oltre vent’anni.
Numerosi costituzionalisti, politologi, uomini comuni si sono interrogati da ultimo su quanto il vituperato “scontro fra politica e magistratura” sia il risultato dell’ingerenza dei giudici nei partiti e non, piuttosto, dell’incapacità delle segreterie dei partiti stessi di selezionare i propri esponenti e di sanzionarli (allontanarli da posizioni direttive ed espellerli) prima che sia un potere esterno ad accertarne l’incompatibilità col loro ruolo. Quel che è certo che il “dimissionamento” necessariamente forzato, negli ultimi anni, degli esponenti di partito da parte della magistratura non indica certamente (a livello di grandi numeri) un’anomalia del funzionamento della giustizia: sarebbe come accusare il medico di aver procurato l’infarto del paziente per lucrare sulle sue cure.
In questo clima generale, i “passi indietro” nella Lega sono sicuramente un’inversione. Marco Travaglio, culturalmente distante anni luce dalle rivendicazioni “padane”, ha voluto onestamente ammettere che il ritiro di Renzo Bossi da un Consiglio comunale come quello lombardo, pullulante di individui “sospetti” o addirittura indagati, è indubbiamente un’eccezione da riconoscere alla Lega.
Su questo punto non c’è nulla da obiettare. Si tratta effettivamente di un caso “eccezionale” in cui il movimento anticipa (come naturale) la stigmatizzazione sociale dei suoi esponenti che, in quanto soggetti pubblici, devono essere soggetti a una responsabilità politica dai confini più estesi di quella penale e civile.
Il punto debole di questa questione è altro. Si tralasci che la Lega, come partito di lotta e di “massa”, è per sua storia preordinato all’anti-sistematicità: una Lega che nasce come altro rispetto alla corruzione dei partiti non è credibile e anzi, non ha senso gettata nella mischia degli “orrori altrui”. Il punto di forza della Lega – ha dichiarato sempre Travaglio – è la spinta propulsiva che gli deriva dall’esigenza di dover delineare sempre una differenza (in positivo, secondo i leghisti) fra sé e gli altri partiti. Questo almeno teoricamente, considerando, comunque, che la cerchia bossiana è appena reduce da un’esperienza di governo che, partendo dai presupposti leghisti, ideologicamente la ha “compromessa”. La “pulizia di primavera” dei traditori dello spirito di partito, tanto evocata ieri a Bergamo, non si sottrae quindi a una logica politica di recupero del consenso elettorale e, invero, è quasi un ottimo pretesto per far espiare ad alcuni scelte impopolari passate (tra l'altro, non è stata una resa alla prassi degli altri partiti "romani" il solo sospetto che Renzo Bossi sia stato candidato per la parentela col leader maximo e non per meriti personali?) .
Ma, tralasciando questo, si dirà, resta sempre un’operazione meritoria che altri partiti non hanno deciso di attuare – bisogna ammetterlo.
Tuttavia, come si diceva, il punto debole della questione resta un altro; è, per così dire, intrinseco nella natura della Lega. Assistere alle lacrime e alla pubblica ammenda di un leader politico è una scena inusuale in questo Paese; accompagnare a misure effettive queste dichiarazioni è raro. MA quando quel leader presiede un partito innegabilmente fondato sul culto del capo, sull’infallibilità delle sue decisioni, sul totale divieto di critica nei suoi confronti, sulla soppressione di ogni dissenso, quella scena diventa incomprensibile. Quando è questione di orgoglio, ritrattare diventa politicamente poco credibile. Se l’essenza di un movimento è l’infallibilità del suo capo, l’errore del capo deve richiamare nei militanti intellettualmente onesti non già l’esigenza di cambiare tutto perché nulla cambi (le dimissioni di Bossi da segretario pesano come macigni, ma sono soltanto simboliche), bensì l’ammodernamento dei suoi “valori”, dei suoi modi e, indubbiamente, delle persone. Parafrasando Marx, non si può svuotare un sistema, mantenendone la struttura. Dati questi presupposti, celebrare l’orgoglio leghista nella condizione attuale è quantomeno imprudente. Finché sarà l’orgoglio il caposaldo di partito, su ogni scelta grava il peso dell’incoerenza (prima ancora di una domanda legittima: di che essere orgogliosi?).
Un’ultima considerazione. Qualcuno ricorderà le parole di un uomo certamente più conservatore e più autorevole del sottoscritto, Alessandro Manzoni, allorché ne I Promessi Sposi descrive le “decisioni” prese dalle masse infervorate e incontrollabili contro il prezzo del pane. Semplificando, il Manzoni, pur condividendo la giustizia di una protesta popolare, le descrive pressappoco come “masse bovine” che travolgono tutto sconsideratamente, incitate da demagoghi. Quel che si ricava da Manzoni è semplice: la giustizia delle ragioni viene oscurata dalla rozzezza dei mezzi. In altre parole, prendere decisioni per acclamazione, infiammarsi sulla spinta dell’umore generale non è democrazia: si chiama in altro modo.
Chi ha orecchi per intendere intenda.

1 commento: