In realtà, quotidianamente temo l'apparir del vero.
Quando svincolo l'uomo dalla Necessità e dal Fato,
lo sto condannando alla possibilità.
Non corre giorno in cui non pensi
al mondo e in nessun giorno il mondo
non cozza con quel che penso,
violentemente.
In realtà, il mio idealismo è la terapia
per affrontare il mondo
senza ripudiarlo,
ma esiste un fremito folle
in quel che scrivo e spesso
rileggo con diffidenza.
In realtà, il mio idealismo è la malattia,
è la cecità improvvisa
che non si spiega,
che non si aspetta,
che non si accoglie,
ma si constata.
E allora
«state contenti, umana gente, al quia…»
No! No! No! It was impossible.
Ho ruminato tanto la Morte
(sogni di morte,
ricordi di morte,
versi, pensieri, esperienze, ossessioni
di morte)
da trasformarla in parola fumosa.
Ho umanizzato la morte.
Le ho assegnato nomi terreni:
“colpa”, “errore”
“rinuncia”, “rimorso”,
“confusione”, “nostalgia”, “rancore”,
“noia”, “inadeguatezza”, “passato”,
e spesso me ne sono innamorato.
Il nome più cupo è “fallimento”:
ha il mantello dello sconosciuto
che si può incontrare.
Per questo, quotidianamente anticipo
l'apparir del vero
e vivo in contrasto (e non so se esserne fiero
o indifferente):
mi tormenta quel che non ho fatto,
mi tortura vivere
se vivere è estirpare bivi ai rami,
se è accusarsi e assolversi.
Ora è come lampadina
su fondo di pece
capire
che il mio idealismo è
l'accartocciarsi del mio pessimismo,
come un istinto di sopravvivenza
o un'estetica della sofferenza.
In realtà, anche mentre scrivo non so
se la mia mano è mossa da una spinta
momentanea che non controllo:
e rinnego di essere l'autore di me stesso,
perché la mia grammatica umana
è insufficiente
ad evitarmi errori.
a S.F.
(Simone Risoli)
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