venerdì 12 giugno 2015

Il giudice liberale

Controllori e controllati secondo due diversi sistemi culturali.


Quando il giudice di Brecht, protagonista di una sua celebre poesia, si trova a contatto con gli immigrati che deve esaminare all'ingresso negli USA, prova dentro di sé un forte bisogno di giustizia. Si chiede - implicitamente - se sia giusto respingere persone affamate che attraversano l'oceano in cerca di un lavoro e di sopravvivenza; si chiede se abbia senso respingerle se non superino l'esame di ammissione; e alla fine consente a uno di loro di passare i confini, facendo sì che risponda correttamente al test.
Ora, questo episodio suggerisce a prima vista due temi: in primis è lampante il richiamo all'attuale situazione di sbarchi dei moltissimi profughi di Paesi in guerra e dei migranti per questioni economiche che non consentono loro di sopravvivere in patria. Ma di questo argomento vorrei parlare meno frettolosamente, quindi rinvio la riflessione - e me ne scuserete. Del secondo, invece, ora dirò qualcosa.
Il giudice democratico di Brecht è senz'altro un giudice socialista: un'idealizzazione dello scrittore, che voleva incarnare l'idea di equità e giustizia, quell'idea che per essere perfetta deve trattare gli individui non allo stesso modo, ma comprendendone le difficoltà, gli ostacoli economici, le debolezze sociali e comportarsi di conseguenza. E' l'idea riassunta dell'art. 3, secondo comma, della Costituzione italiana: "è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale (...)".
Se si osserva il modello americano, certo non si può ritenere che esista una tale figura, ma senz'altro si riscontra una figura di "giudice liberale", che ha una funzione speciale e che ai nostri sistemi, continentali e italiano soprattutto, manca. Si tratta di una funzione sociale riconosciuta dall'opinione pubblica e non da una legge. Perché se è vero che negli Stati Uniti il socialismo "non è di casa", è però vero che ai giudici (e, in senso lato, a chi esercita un ruolo di arbitro, un controllo finale su un'attività) è riconosciuta una fortissima autorevolezza, che è ben altra cosa dall'autorità. All'autorità di chi comanda si deve obbedire: lo impongono le regole; all'autorevolezza, invece, si riconosce un principio di giustizia, una ragionevolezza, una forma di rispetto e gratitudine, a cui si aderisce.
In quella concezione comune il "giudice liberale" è tendenzialmente un giudice buono. Non esercita poteri, non applica freddamente leggi, non costringe né limita libertà: non è questo che si pensa di lui. Fa valere i diritti, dirime le ingiustizie, riporta l'equilibrio (o ci prova): è il supremo difensore delle persone e delle loro pretese giuste; ed è questo che di lui si pensa. Il giudice non è un nemico che ordina e vieta,non è l'insensibile esecutore della legge, ma il sommo garante dei diritti. E questo non è semplicemente un mito.
Sin dagli albori della storia liberale americana, fu un giudice, agli inizi dell'800, a fare carta straccia di una legge che a suo avviso cozzava coi diritti fondamentali della Costituzione; e, ancora, fu la Corte Suprema, negli anni Venti del '900, a cambiare il modo di intendere la Costituzione per consentire al presidente Roosevelt l'approvazione del New Deal, l'atto rivoluzionario di ripresa del Paese. E tutto questo "a Costituzione invariata", senza cioè modificare una virgola del testo scritto alla fine del '700: perché non era necessario, perché il "giudice liberale" aveva, da solo, modificatone l'interpretazione, per renderla più moderna, al passo coi tempi e capace di rispondere ai bisogni attuali degli individui. Ma soprattutto, in tutto ciò, egli era percepito come l'amico del popolo e dei diritti, non come il cattivo castigatore o il guastafeste.
Quel che spesso da noi accade, invece, è che le regole e chi ne è il custode siano percepiti come limitativi, chi le applica è ritenuto insensibile alla vita dei cittadini, è colui che vuole mettere "il bastone fra le ruote" all'autonomia privata. I controlli ostacolano il progresso e sono inutili e dannosi; la funzione giudiziaria una forma di intromissione, spesso incompresa, se non addirittura una forma di persecuzione: il giudice è il controllore guastafeste. I controlli dell'autorità giudiziaria sono intesi come interventi eccessivi; le inchieste sulla corruzione sconfinano e invadono il campo della politica; la denuncia è sinonimo di spionaggio, slealtà e tradimento; le indagini e gli esposti sul malaffare, sugli illeciti nella gestione di opere e risorse pubbliche sono atti di disturbo, evitabili, che rovinano la tranquillità e la reputazione delle persone. Il controllore è il disturbatore pubblico, il moralista che "fa le pulci". Con tutte le riserve dei casi, gli esempi si moltiplicano: i processi contro i politici di turno sono operazioni infami e infamanti; arrestare chi mal gestisce il bene pubblico è eversivo perché delegittima e sovverte la volontà degli elettori; fermare grandi opere inquinanti o infestate da ruberie è una reazione al "nuovo che avanza". Così, ancora, quando si è abolito l'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che prevedeva un accertamento del giudice sui licenziamenti ingiusti, si è sostenuto che quel controllo scoraggiasse le assunzioni, intralciasse l'attività d'impresa e introducesse privilegi; pochi si sono soffermati sulla sostanza: un controllo sul fatto che un licenziamento sia giusto o meno non è un danno all'impresa (che non deve temere verifiche di alcun tipo quando opera in buona fede), ma una garanzia di giustizia. Ecco, queste e altre situazioni hanno - e si sa - soluzioni più facili ma meno comode, ad esempio: commettere reati è di per sé un male sociale, e non il perseguirli; tenere lontani dalle cariche pubbliche soggetti che non possono (nemmeno legalmente) ricoprirle non limita la volontà popolare ma la attua ai massimi livelli; il voto non è un'esperienza catartica che purifica dando l'investitura, perché il potere è servizio alla comunità e non immunità, quindi può essere esercitato solo da chi è nelle condizioni di offrire un reale e utile servizio; indagare su opere in cui si annida la corruzione non è una piaga: la piaga sarebbe lasciar svolgere attività criminose che sfasciano il tessuto sociale (e la corruzione è la principale). E così via.
Chi controlla è ritenuto responsabile di rallentare o intromettersi (le cose - si può riassumere - andrebbero meglio senza). E il danno - si sostiene - è maggiore di quello che si avrebbe in assenza o con meno controlli e intromissioni. L'arbitro è oggetto di insulti delle opposte tifoserie, invece di essere percepito come colui che sorveglia sul regolare svolgimento del gioco. Questo è evidentemente un modo ideologico per affermare quel retaggio culturale primitivo di cui si fa fatica a liberarsi: coltivare ognuno il proprio orticello, voler essere lasciati in pace, percepire le regole come limiti stretti.
Epperò, contro una legge restrittiva si reagisce con la cittadinanza attiva per il cambiamento, non cercando sotterfugi, non con l'elusione. Nel nostro sistema culturale non manca il giudice liberale, il controllore giusto; manca principalmente il controllato onesto.

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