lunedì 25 aprile 2016

Il diritto di resistenza

La storia del diritto di resistere al potere illegittimo coincide con quella della democrazia. Il suo contenuto, il valore, la sua portata sono variati nel corso del tempo, richiamando ora il diritto naturale, ora quello divino, fino a confondersi nelle Costituzioni moderne con le più fondamentali libertà della persona.
Non è un segreto che la Costituzione italiana, così come molte costituzioni del dopoguerra o nate all'indomani di regimi autoritari, sia una costituzione partigiana. Dalla Resistenza al nazifascismo è nato il sistema delle libertà fondamentali attualmente in vigore e con la Resistenza si è affermata l'idea di diritti individuali e universali.
Non è un mistero che gli stessi padri costituenti, molti dei quali avevano in prima persona combattuto la guerra contro l'oppressione fascista, vollero escludere il rischio che all'indomani della liberazione si ripetesse l'esperienza liberticida. Meno noto è che quando discussero uno degli architravi del nuovo sistema, quello che prevede la partecipazione dello Stato alla vita internazionale, si interrogarono su quali regole e diritti della Comunità internazionale dovessero avere il primato, una forza addirittura superiore alle leggi nazionali (per i lavori preparatori all'art. 10 Cost., si vedano le diverse raccolte di Atti della Costituente). Memori della Resistenza, gran parte dei deputati intuì la necessità di riconoscere come inalienabile il diritto dei popoli oppressi a ribellarsi ai governi oppressori. E così, in linea con una parte della Comunità internazionale, ogni potere che vessasse il proprio popolo veniva in sostanza a configurarsi come illegittimo e ciascun popolo, specularmente, legittimato a rovesciarlo.
Il principio non fu formalizzato in maniera esplicita, ma sicuramente contribuì a sollevare una questione di prim'ordine: l'oppressione, l'eccesso di potere, l'uso distorto della forza diventavano la misura insuperabile, la scintilla che aziona un vero e proprio diritto: quello di resistere.
In questa forma però il diritto di resistenza - forse non citato ma sicuramente presupposto dalla Costituzione italiana del '48 - non si esaurisce nel passato, ma continua a valere o quanto meno a sfidare per il futuro e resta sempre attuale. Col XXV Aprile 1945 allora si celebrano non soli i fatti storici della liberazione da una dittatura totalitaria e disumana, ma anche il diritto dei popoli, costituiti da gruppi sociali e da individui con altrettanti incomprimibili diritti, a opporsi alle ancora numerose angherie e violazioni dei diritti basilari.
La lotta alla "tirannide" è stata sin dall'antichità il metro per riconoscere e rendere effettive le più basilari esigenze dell'uomo che il potere negava. Da Antigone, che coraggiosamente sfidava il divieto disumano di seppellire il fratello trucidato, a Locke che nel '600 rivendicava il diritto di resistere e ribellarsi al potere illegittimo che violava il patto coi suoi cittadini. Proprio con Locke il diritto di resistenza diventa uno dei paradigmi della libertà: i cittadini, non più sudditi, sono parte di quel patto con lo Stato, un patto di protezione che essi si sono impegnati a rispettare per il vantaggio che ne deriva ma che, al contempo, obbliga lo Stato a rispettarlo, comportandosi da buon padre di famiglia. Non è più ammesso allo stato liberale e ora democratico di violare quei principii.
Se questo è pacifico, resta da chiedersi però quando un potere diventi illegittimo: quando cioè violi quelle regole fondamentali del gioco che ne sanciscono l'espulsione e la sconfitta.
La memoria scorre diretta al buon Socrate. Secondo il racconto di Platone (nel Critone), la forza d'animo e l'integrità del maestro avevano spinto l'Ateniese ad accettare la pena di morte inflittagli dalla comunità. Una pena ingiusta ma, per Socrate, doverosa a cui perciò non avrebbe voluto sottrarsi. Cosa concludere dunque? Violare la legge è un disvalore maggiore rispetto alla resistenza a una decisione ingiusta?
A mio avviso la verità deve cercarsi nel mezzo. Tralasciando l'eroismo di Socrate che non è qualità da doversi pretendere, anzitutto legalità e resistenza sono valori che possono venire in conflitto. Non è questa la sede per spiegare che diritto e morale possano (e debbano) procedere su vie distinte; ma è questo il caso di comprendere quando moralmente e politicamente questo diritto di resistere sia preminente rispetto all'osservanza della legge. 
Muoviamo dal presupposto che la disobbedienza a un regime totalitario è la precondizione per violarne le leggi. D'altra parte, gli stessi gerarchi nazisti si difendevano durante il processo di Norimberga invocando l'ubbidienza a ordini superiori. E ciononostante la banalità di questa giustificazione non reggerebbe ad alcun giudizio di buon senso. Si coglie invece che proprio l'enormità e la gravità delle violazioni di quel regime giustificava una reazione al di fuori del sistema delle leggi
Durante la Resistenza al fascismo, gli stessi partigiani italiani erano, secondo il sistema vigente, fuorilegge. Formalmente - come scrive Fenoglio ne Il partigiano Johnny - nulla distingueva un partigiano da un bandito se non - si aggiunge nel romanzo - la sua ideologia. Ora, fuor di metafora, l'ideologia della Resistenza era proprio la libertà. Ma non una libertà astratta e dai confini indistinti, non una libertà-concetto: ma una libertà concreta, tangibile,che si manifestava in ogni forma di vita quotidiana, anche la più semplice. Libertà nel '45 significava sgomberare dai proiettili, dalle bombe, dai gas le strade, le scuole, le fabbriche, le case dei borghi occupati, delle città decimate, liberare la scansione delle giornate dal ritmo dei mitragliatori contro i corpi dei condannati sommariamente a morte, dalle fucilazioni, dal confino, dalla tortura, dalle rappresaglie; libertà nel '45 significava fermare i carri merce pieni di carne umana che in partenza per il massacro verso il fronte; libertà nel '45 significava fermare i vagoni ferrati ricolmi di uomini ammassati come bestiame, compagni di scuola, colleghi di lavoro, volti noti destinati alle deportazioni, ai lavori forzarti, allo sterminio razziale; significava recuperare quella dignità umana calpestata in ogni singolo aspetto della vita pubblica e privata, voleva dire non dover più chiedere allo Stato un'autorizzazione per sposarsi con chiunque e non doversi difendere da persecuzioni in base alla nascita, agli ambienti frequentati, alle opinioni espresse; libertà nel '45 voleva dire coltivare l'ideale di una Comunità nuova, in cui gli affetti non fossero sistematicamente sottoposti al placet dell'autorità; significava desiderare elezioni libere e realizzare un sistema di codecisione di un progetto comune.
Quel che significa oggi il diritto di resistenza, quindi, è a mio avviso insito nella finalità (la c.d. "ideologia") e nelle condizioni oggettive, intollerabili, in cui molti popoli e uomini versano.
Perciò è chiaro: rivendicare quel diritto non significa istigare alla violenza, ma vuol dire non trincerarsi dietro la banale rassicurazione dell'omertà o del conformismo. Resistere non è sinonimo di agire contro la legge, ma capacità e autonomia di discernere quando la disobbedienza è il più fondamentale dei diritti. Questo, purtroppo, bene può essere compreso dai popoli e le persone che di quelle libertà innegabili sono private: persone per le quali avere un'istruzione, frequentare luoghi pubblici, esprimere il proprio pensiero o avere una vita privata è tuttora impossibile. 
Questo 25 aprile è dedicato a loro.


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